Benessere organizzativo: facilitare il wellbeing aziendale.

Il benessere organizzativo è la capacità di un sistema di promuovere, tutelare e valorizzare la salute fisica, psicologica e relazionale delle persone a ogni livello dell’organizzazione. In poche parole, si tratta del well-being aziendale, riguarda dipendenti, manager, leader e oggi è una grande sfida per le imprese.

I dati, infatti, raccontano un malessere dilagante: 1 under 34 su 2 in Italia ha lasciato un lavoro durante la propria carriera per motivi legati allo scarso benessere – dati BVA-Doxa per Mindwork

Cosa può fare un’impresa per invertire il trend? Può mettere in campo strategie e azioni per promuovere una cultura aziendale non tossica e generativa, benefica per le persone e efficace per le organizzazioni che diventano più capaci di attrarre e valorizzare talenti. Il primo passo riguarda la leadership: chi è leader può cambiare un’impresa molto più (e prima) di un capo.

La leadership è legata a doppio filo al benessere organizzativo.
Lo stile di leadership, il modo in cui guidiamo un’azienda verso il raggiungimento degli obiettivi desiderati, influisce profondamente sulla cultura aziendale, sulle relazioni e sulla salute di persone e team. Contano statuti, parole ma soprattutto comportamenti: uno stile di leadership aziendale generativo non si predica, si pratica. Lo dicono anche i numeri.

Secondo uno studio condotto dal Workforce Institute della multinazionale UKG, i manager hanno un impatto sulla salute psicologica maggiore di terapeuti ed equivalente a quello dei partner. Se la relazione con chi “comanda” è tossica, ne risentiamo anche fuori l’ufficio. Anche stavolta ha ragione Spiderman. Da una grande leadership derivano grandi responsabilità.

Ma cosa può fare una leader o un leader per  generare un impatto positivo sui livelli di benessere organizzativo? Prima di tutto, può scegliere di non essere solo un capo.

 La differenza tra capo e leader. 

Per diventare leader per il benessere organizzativo è utile, innanzitutto, salutare Taylor e Ford: ovvero, dimenticare la logica meccanicistica. La leadership verticale che ne deriva è infatti pensata per modelli organizzativi lineari, dove i compiti sono ripetitivi, i risultati prevedibili e i processi programmabili fin nel dettaglio.

Nell’ecosistema imprenditoriale contemporaneo non funziona così: affrontiamo sfide sempre più complesse e la più grande competenza dei team è il problem solving che per definizione non è né ripetitivo né necessariamente lineare. Compito della leadership è facilitare il problem solving, ovvero rimuovere gli ostacoli a una collaborazione creativa.

Si tratta quindi di abbandonare l’idea di un capo che tutto sa e decide a favore di leader facilitatori e facilitatrici il cui compito principale è creare contesti in cui le persone e i gruppi possano esprimere il pieno potenziale.

Non pensiamo più a Steve Jobs, ma all’intelligenza collettiva – la capacità dei team di lavoro di trovare soluzioni intelligenti, efficaci, originali.

Ma quale è la differenza tra capo e leader? Pensiamoci.

Il capo sta in cima. Sopra l’organigramma, distante da tutto il resto. Ha una posizione di privilegio che però riscontra due limiti: se da un lato sembra vedere tutto, in realtà è lontano dalla frontiera dove avvengono le relazioni con clienti e fornitori. Inoltre ha una posizione in un certo senso fissa: lo troviamo sempre lì. Non è una figura dinamica o generativa. Il capo non crea altri capi perché dirige nel pieno dei propri poteri.

Spesso associamo alla parola capo, declinata al maschile, le funzioni della testa: pensare, decidere, ordinare, controllare.

Leader viene dal verbo to lead: guidare.

Leader è chi ispira, indica una rotta, condivide uno scopo. 

Chi è leader non si trova solo in cima all’organigramma, ma ovunque serva.

Leader, infatti, può essere il capo ma non solo. In un sistema complesso e articolato come le organizzazioni contemporanee, più leader convivono insieme a diversi livelli. Pensiamo al team leader: non ha il compito di decidere tutto ma di mettere le persone del team nelle condizioni di prendere la decisione più sostenibile in quel momento. Può farlo perché crea contesti collaborativi in cui ognuno può mettersi al servizio dell’obiettivo comune.

Tra le competenze del leader c’è, quindi, la capacità di creare contesti creativi, di facilitare le relazioni, di supportare le persone affinché sentano maggiormente un senso di efficacia personale.

Leader è chi affronta le sfide e crea spazi di confronto e fiducia

Leader è chi crea leader.

Infine, secondo il  Process Work, l’approccio multidisciplinare sviluppato da Arnold Mindell e diffuso in Italia dalla Scuola Arte del Processo, tra le capacità da leader c’è quella di leggere i messaggi nascosti: ossia di interpretare la cultura profonda di un sistema e prendersene cura.

Una metafora può aiutare a cogliere la differenza.

Pensiamo alle organizzazioni come a organismi viventi: il capo da solo non basta a far funzionare tutto, alla salute dell’intero sistema. Dobbiamo prenderci cura delle altre parti e ascoltare i segnali che mandano: emozioni, sensazioni, messaggi fisici.

Capo è chi sta solo sulla testa. Leader è chi integra le parti, le mette in relazione e sa che ogni organo conta.

 Diventare leader per il benessere organizzativo. 

Un manuale della buona leadership non esiste.
Esistono però principi cui ispirare la leadership nel lavoro quotidiano e pratiche da adottare nelle organizzazioni per creare contesti più favorevoli al benessere aziendale.

  • mettersi in ascolto

La democrazia profonda ci insegna a fare un passo indietro prima di prendere posizione per ascoltare le voci in campo e trovare soluzioni win/win più sostenibili nel tempo.

  • cercare i messaggi nei conflitti

Il conflitto è come un postino, porta un messaggio, sta a noi leggerlo e comprenderlo. Esistono approcci e metodi per farlo, ispirati al Process Work, e consentono di spersonalizzare il conflitto per capire cosa ci dice del sistema organizzativo.

  • scacciare la paura

La sicurezza psicologica è il fattore fondamentale che permette a un team di raggiungere più alti livelli di efficacia. Lo ha spiegato chiaramente Amy C. Edmondson basando le riflessioni su decenni di ricerca sul campo.

  • costruire processi partecipativi

Vuol dire adottare tecniche per coinvolgere le persone nella ricerca di soluzioni. Aumentare il problem solving è l’obiettivo della facilitazioneche rimuove gli ostacoli alla collaborazione e al benessere organizzativo.

  • disegnare pratiche non discriminatorie

Il codesign è il processo di design partecipativo che permette di progettare pratiche di lavoro ispirate alla diversità e alla pluralità di voci. Solo accogliendo già nella fase di progettazione la molteplicità dei bisogni e dei punti di vista è possibile organizzare processi rispettosi di tutte e tutti e quindi più coinvolgenti e creativi.

 Pillole di formazione per leader facilitatori e facilitatrici. 

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