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Donne che impresa!

Trasformazione e cambiamento sono parole quotidiane per me. Sono una giornalista, una facilitatrice dello sviluppo transpersonale e in mindfulness. E faccio parte da molti anni di Italia che Cambia, progetto giornalistico che vuole proprio stimolare il cambiamento, offrendo ogni giorno le storie di chi, più o meno silenziosamente, sta cambiando il mondo con progetti innovativi e nuovi modi di vivere e agire.

Italia che Cambia

Italia che Cambia

Quello che vivo ogni giorno mi stimola tante riflessioni, a livello personale e come società. Sono consapevole di avere una finestra di osservazione privilegiata su un mondo in continua trasformazione. Una finestra che a volte corre il rischio di diventare “bolla” tanto è nutriente, arricchente ciò che vedo e quanto mi dà la percezione di un mondo entusiasmante e meraviglioso.

Di tutto ciò che osservo, oggi vorrei soffermarmi su alcuni aspetti meno immediati.

Prima di tutto le resistenze, che a volte osservo anche in me. “Perché dovrei trasformarmi, cambiare? Non vado bene così come sono?”. Queste domande, più o meno sotterraneamente serpeggiano dentro di noi. E si muovono non solo a livello personale, ma si riflettono anche, con un linguaggio differente e forse anche minore consapevolezza, nei nostri progetti e organizzazioni. Queste domande fanno traballare il nostro piccolo senso di identità, le certezze su chi siamo, fanno franare inesorabilmente l’immagine di noi che abbiamo consolidato. Un’immagine che ha un senso, che ci fa sentire al sicuro, di cui abbiamo bisogno.

Solo facendo un passo indietro, mollando un po’ questo attaccamento, possiamo osservare un panorama più ampio. Osservare la natura e la Vita. Forse non da soli, perché non è facile. E da questa prospettiva ampliata vedere che la resistenza al cambiamento è un ossimoro alla Vita stessa. La trasformazione è insita alla vita.  Il non cambiamento è un illusione.

Quello che possiamo fare è però cambiare in modo consapevole e osservato, in sintonia con il movimento della vita stessa. Che in termini più concreti si traduce nel considerare l’appartenenza ad un sistema più ampio, non ignorare le traiettorie e i movimenti che si manifestano intorno a noi, leggendo con apertura, dove puntano. E chiederci costantemente “perché”: “perché stiamo facendo ciò che stiamo facendo?”, come organizzazione, ad esempio. Un modo per non perdere l’orientamento e anche per aprirci alla necessità di un cambiamento che nutre la passione e la visione. Questo, a volte implica lasciar andare.

Il lasciar andare, nella mia vita personale, così come nelle organizzazioni di cui faccio parte e di quelle che osservo, è per me l’apprendimento più importante e ha segnato le esperienze più significative. Ci affezioniamo alle cose che facciamo, ai nostri progetti; ci innamoriamo di una nuova idea e qualcosa che fa parte da tempo del nostro organismo, sia progetto o persona, la si ama.

Non è facile quindi prendere la giusta distanza per rendersi conto che per quell’idea non è il “momento giusto” e non si trasformerà in un progetto a lungo termine oppure, nel secondo caso, che è arrivato il momento di lasciar andare quell’elemento a noi così caro. L’affetto è un bellissimo sentimento; questa parola viene dal latino adfectus, da ad e facere, che significa “fare qualcosa per”. Questo “prendersi cura”, comprendiamo subito, non si agisce trattenendo; lasciar andare è “fare qualcosa per”. Questo gesto di affetto libera tantissima energia, energia che torna a nostra disposizione e che ci permette di proseguire con più forza, in modo più coerente al flusso della vita, permette ai nostri progetti di avere una vita più lunga e felice e aumenta il benessere di tutte le persone che ne fanno parte.

Nella mia esperienza prendere consapevolezza che era arrivato il momento di lasciar andare qualcosa all’interno del progetto di cui mi prendo cura, e farlo, è stato possibile (che non significa facile…). Possibile grazie a strumenti che da sempre abbiamo integrato al nostro interno, come la facilitazione, e a persone che nel fare questo ci hanno accompagnato. Anche nella fase successiva, quando si è lasciato andare, infatti, è necessario prendersi un momento, rituale nel senso proprio del termine, per onorare ciò che è stato ed anche ciò che non è andato come avremmo voluto. Quello che si impara da questo passaggio va molto al di là di ciò che potremmo immaginare e non è mai una mera comprensione razionale. Ci trasforma.

Daniela Bartolini

Daniela Bartolini

Redazione, Vicepresidente-Italia che Cambia

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