Il conflitto non riguarda solo le persone ma i sistemi, organizzazioni, team, imprese, e porta un messaggio rilevante. Coglierlo può fare la differenza tra un’azienda che evolve e una che non riesce a farlo. Ne hanno parlato Ilaria e Manuele Ceschia, CEO di MyNet, piattaforma per la gestione delle risorse umane, a Visionary HR Talks, ciclo di incontri sulla comunicazione interna e l’HR management condotto da Priel Korenfeld.
L’intervista è disponibile in formato audio e testuale. Buon ascolto e buona lettura!
Priel – Ciao, sono Priel Korenfeld e questo è Visionary HR Talks, dove ci chiediamo come possiamo migliorare la qualità della vita sul lavoro. Il tema oggi per me è è vicinissimo. Lo affrontiamo con Manuale Ceschia, CEO di MyNet, padrone di casa, e Ilaria Magagna, facilitatrice di Tara facilitazione.
Il grande tema è il conflitto come alleato: come possiamo trasformarlo attraverso l’intelligenza collettiva?
Prima di tutto, capiamo di cosa stiamo parlando con Ilaria, facilitatrice. Aiutaci a capire Tara facilitazione cosa fa e, se c’è una differenza nel mondo della facilitazione, come si posiziona Tara, come ti posizioni tu.
Ilaria – Parto dalla parola facilitatrice, ogni volta mia mamma mi chiede: scusa, che lavoro fai? Mi sono allenata a rispondere: una facilitatrice aiuta i team e le organizzazioni a lavorare meglio insieme. Lo dice la parola stessa, la facilitatrice rende più facile il lavoro e lo fa in modi differenti. Ci sono facilitatori e facilitatrici che supportano principalmente i processi all’interno di un’azienda, con una attenzione particolare a come fanno le cose, altri e altre che supportano in particolare le relazioni, quindi tutto ciò che ha a che fare, per l’appunto, anche col conflitto. Infine ci sono facilitatori e facilitatrici che lavorano principalmente sugli obiettivi e quindi, per esempio, sugli OKR o su altri strumenti che aiutano un team a raggiungere l’obiettivo. Nello specifico, Tara nasce con l’intento di supportare i team e le organizzazioni nei loro processi e percorsi di trasformazione e di lavoro insieme con un occhio a tutti e tre questi elementi, processi, obiettivi e persone. In realtà ognuno di questi elementi è una porta di ingresso per esplorare l’organizzazione: ad esempio si parte dalla relazione, ma poi emerge il bisogno di lavorare anche sui processi, sulla visione comune e così via.
Priel – Quindi la facilitazione è aiutare i team e Tara, nello specifico, ha uno sguardo sulla trasformazione. Ma appena cominciamo a spostare le cose, a cambiare, vengono fuori anche i conflitti. Si dice che tutti quanti vogliono che le cose cambino affinché le cose restino come erano prima. Come ti sei avvicinata a questo tema? Quali sono i ricordi che ti portano a questo? Io sono nato e cresciuto in Israele. Il tema del conflitto me lo porto dentro, mi sono interrogato parecchio sul conflitto: tu come ci sei arrivata?
Ilaria – Ci sono arrivata per gradi. Prima di fare la facilitatrice, ho lavorato nel mondo del teatro, nell’associazionismo, i gruppi sono da sempre il mio pane quotidiano o perché li facilito o perché sono completamente immersa nelle loro dinamiche. Mi sono resa conto che ero terrorizzata dal conflitto, ho capito ad un certo punto che avevo molta paura. Questa paura in realtà mi stava frenando, non mi permetteva di fare dei passi in avanti, di evolvere. Davanti al conflitto mi congelavo completamente. Mi sono detta: non va bene, non funziona. E mi sono chiesta: ci sarà un modo di lavorare meglio insieme?
Nei gruppi ci sono dinamiche simili: spesso ci sono grandi idee, grandi obiettivi ma c’è un problema tra le persone, di relazioni.
Ho cominciato a esplorare la facilitazione, il tema principale per quanto riguarda le relazioni era chiaramente il conflitto e quindi, pur avendone una grossa paura, ho iniziato a lavorarci su.
Priel – Mi piacerebbe capire meglio cosa mettiamo dentro la parola conflitto. Nel titolo dell’incontro abbiamo usato anche un’altra parola forte: alleato. Nei post per la comunicazione dell’incontro abbiamo citato Laloux secondo cui il conflitto è inevitabile, i comportamenti conflittuali no. Quindi cosa intendiamo?
Manuele – Io ho un grosso problema con il conflitto in azienda. Quando succede qualcosa che non va bene mi fa stare meglio prendermela con la persona che sbaglia. Ascoltando il podcast di TARA ho fatto un percorso: ora fermo la mia smania di stare meglio, di sfogarmi, affinché dall’errore possa nascere qualcosa di positivo, ma è molto complicato. Io ho fatto uno switch importante su questo tema da quando sono diventato papà.
Priel – Interessante! L’esperienza di Manuele mi porta a chiedere: cosa possiamo fare diversamente dal solito rispetto al conflitto?
Ilaria – Ho notato due comportamenti prevalenti nei gruppi: c’è chi nega il conflitto, ne ha talmente tanta paura da fingere che non esista, e poi c’è Manuele, il quale invece riconosce che c’è una parte di sé a cui piace confliggere. Quindi cerca il conflitto, lo scatena.
Si può negare il conflitto o farlo esplodere. Ci siamo chieste, c’è una terza via?
Il conflitto può essere solo qualcosa che ci fa stare male, che ci spinge a combattere uno contro l’altro per capire di chi è la posizione dominante? Se c’è una terza via, qual è e perché è importante esplorarla? Non so se conflitto sia la parola giusta, è molto forte. Forse è meglio parlare di tensione, il conflitto è già qualcosa di faticoso. La tensione non può non esserci: nei team ci sono punti di vista differenti che si incontrano e devono trovare un modo di stare insieme. Abbiamo esplorato come.
Priel – I due atteggiamenti che hai descritto rispetto al conflitto assomigliano molto all’istinto Fight or Flight che abbiamo: quando un animale, in particolare un mammifero, sente di essere in pericolo o si congela perché così si salva, oppure attacca. Questo è il nostro meccanismo di difesa più ancestrale ma non ci serve tantissimo quando al lavoro riceviamo un feedback che non ci fa stare granché bene. Quando comincia, però, il conflitto? Vorrei proporre una risposta: il conflitto comincia dal momento in cui uno di noi percepisce che i suoi bisogni non vengono considerati o non possono essere considerati. A quel punto io percepisco che i miei bisogni e i tuoi bisogni non possono andare d’accordo. Non lo verbalizzo ma il conflitto si accende già.
Manuele – Noto che voi due parlate sempre di persone: io eliminerei il concetto di persona. Vedo ad esempio che nell’ufficio marketing e in quello amministrativo i capireparto, che vanno d’amore e d’accordo, a causa delle responsabilità e degli obiettivi che hanno tendono a esternare in modo non congruo un pensiero, un punto di vista. A me ha fatto una bellissima impressione il manuale di Andrea Virgilio su come si deve litigare meglio in azienda.
Ilaria – Manuele sottolinea elementi importanti. Prima di tutto, l’emozione e poi le persone. Il conflitto diventa alleato quando ci fermiamo un secondo respiriamo, contiamo fino al famoso 10 delle nonne, che sono sagge. Proviamo a dire: ok, sono arrabbiato. Riconosciamo che c’è un’emozione, non la mettiamo sotto il tappeto. La guardiamo, ma non ci facciamo guidare da quell’emozione. Se abbiamo detto a una persona decine di volte come fare qualcosa e non lo fa, siamo sicuri che sia lei che sta sbagliando e non ha capito oppure che non ci sia un errore nel sistema? Farci la domanda è molto difficile. Se quella persona continua a sbagliare, forse mi sta mandando un feedback. Forse c’è un messaggio? Proviamo a condividere la responsabilità, a chiederci quale è la nostra parte nel processo che non funziona: siamo poco chiari, mandiamo messaggi nei momenti meno adatti, magari di domenica. Ribaltare lo sguardo è difficile. Ma è fondamentale per chiederci qual è la nostra percentuale di responsabilità nel conflitto.
Dobbiamo spersonalizzare il conflitto, spostare l’attenzione dalle persone al messaggio, dalle persone al bisogno.
Priel – Aggiungo: noi portiamo dentro le organizzazioni i nostri vissuti. Trovo molto utile cercare di non identificare se stessi o l’altra persona con l’emozione che si prova in quel momento. Il problema non sono io, non sei tu: il bisogno è in gioco. Se parliamo di come siamo fatti, di che tipo di persone siamo, non se ne viene più fuori.
Ilaria – Certo. Il messaggio mandato dal conflitto non dice mai che una persona è sbagliata, dice che nel sistema organizzativo c’è qualcosa che non funziona bene. Può riguardare i processi, il modo in cui comunichiamo. Faccio un esempio banale, una persona arriva in ritardo. Se lo fa una volta, due volte, va bene, quando continua a farlo probabilmente ha un problema con la gestione del tempo. Posso chiedermi: gli orari delle nostre riunioni sono compatibili con tutte le persone in azienda? C’è un messaggio, ma io lo riesco a leggere solo e solo se lo spersonalizzo. Lo sposto dalla persona, lo metto al centro e mi chiedo, che cosa mi racconta dell’organizzazione, che cosa mi racconta di me? Io sto facendo pace con il conflitto e tutto è partito da un insight: ho pensato che il conflitto nasce nella diversità, tra punti di vista differenti, non nasce quando la pensiamo tutti allo stesso modo. Ma proprio la diversità, la biodiversità dei nostri ecosistemi, è ciò che ci fa sopravvivere in questo preciso momento storico, ci permette di fare innovazione, di gestire la complessità e così via. Quindi noi dobbiamo necessariamente lavorare sul conflitto perché quando lavoriamo sul conflitto facciamo funzionare la diversità.
Priel – Penso al polarity thinking di Barry Johnson. In sostanza il punto è: come possiamo mettere insieme punti di vista diversi, due polarità, e trasformarli in un pensiero che includa entrambi? In sintesi, come facciamo? Come possiamo gestire il conflitto?
Ilaria – Penso a quello che ha detto una delle persone a Codesign the Future, uno dei nostri incontri facilitati online. Dobbiamo parlare del conflitto in tempo di pace. Questo significa normalizzarlo. Parliamo spesso di ruoli, di governance, di come prendiamo le decisioni e dove è meglio mettere la macchinetta del caffè. Dobbiamo anche parlare del conflitto, perché è uno degli aspetti del lavorare insieme.
Normalizzare il conflitto significa dotarsi di procedure per gestirlo quando arriva come ci dotiamo di procedure per far funzionare un processo o le nostre riunioni.
Quando emerge spesso è carico di fuoco, di tensione, di emozione, quindi non sempre si è lucidi, ma se noi ne abbiamo parlato prima, ci siamo dotati di procedure, il conflitto diventa normale. Sappiamo come gestirlo. Inoltre esistono strumenti molto semplici nella facilitazione per gestire creativamente il conflitto. Ad esempio, allenarsi a usare congiunzioni affermative durante una riunione invece che negative, cominciare sempre una frase con “e vorrei aggiungere”. Vi assicuro che all’inizio suona meccanico, ma dopo un po’ ti rendi conto dell’impatto che ha cambiare una congiunzione. Così cominciamo a metterci uno a fianco all’altro invece che uno di fronte all’altro a livello verbale. Fa la differenza. Il secondo è un piccolo strumento che noi usiamo per aprire le riunioni, che in gergo tecnico si chiama check in, ma ognuno può chiamarlo come vuole: è un momento prima di cominciare a discutere dei temi, che può durare da un minuto a dieci minuti, in cui ci guardiamo negli occhi come persone prima che come colleghi. E facciamo un giro per dire come ci sentiamo, come stiamo. Perché è importante? Perché se io so che Priel ha dormito veramente poco, quando mi risponde in modo sgarbato o scostante, so da dove viene quel modo di fare. La prendo meno sul personale o addirittura cerco di supportarlo.
Priel – Bene, ma quando ormai sei in tempo di guerra, che cosa fai?
Ilaria – Non c’è una risposta univoca. A volte, il sistema ha solo quel modo lì per mandare il messaggio. O perché non siamo stati bravi ad ascoltare prima, o perché non abbiamo colto i piccoli segnali. Il conflitto è come qualcuno che bussa alla porta: prima piano, una, due, tre volte. Alla fine, se la porta non si apre, la sfonda. Comunque, quando siamo nel bel mezzo del conflitto, lasciamo che emerga. Proviamo poi a metterlo nel centro, per esempio, con la facilitazione visuale disegniamo il conflitto o scriviamolo su un foglio e guardiamolo insieme: è un allenamento alla spersonalizzazione. Non è così automatico e non sempre è facile.
Priel – Concludiamo così: se vogliamo trasformare il conflitto in un alleato impariamo a guardarlo, portiamo l’attenzione sulle diversità nel nostro sistema, poniamo attenzione ai messaggi da scoprire. Andiamo curiosando e vediamo come possiamo evolvere.
Se sei qui potrebbe interessarti la nostra proposta di facilitazione per rendere il conflitto un alleato nei team.