Per una narrazione nuova

Vogliamo contribuire a costruire una nuova narrazione del mondo e vogliamo farlo ora. A partire dalle parole di uso più comune. Un esempio?

“Buongiorno bambini”.

Ecco il più classico dei saluti quando si entra in classe: con estrema sintesi mostra cosa significa maschile sovraesteso. Si tratta dell’uso del genere maschile allargato a una pluralità nella quale anche solo uno dei soggetti inclusi è di genere maschile. Se in classe ci sono bambine, e se sono la maggioranza, non importa. 

Quando parliamo di una pluralità spesso lo facciamo così, usando il maschile per la moltitudine. Ma esiste un modo diverso per esprimersi? Dobbiamo o possiamo inventarlo? Soprattutto, è giusto sperimentare una maniera inclusiva per parlare, scrivere e comunicare?

Noi pensiamo di sì e non siamo le sole. 

La sperimentazione linguistica che si sta diffondendo, generando dibattito, è la schwa – pronunciata italianizzandola scevà. Si tratta di una e rovesciata (ə) usata nei testi per superare il binarismo di genere e per evitare di attribuirlo, un genere, alle moltitudini.

La sociolinguista Vera Gheno, che ne ha parlato e scritto ampiamente, in una bella intervista al magazine The Submarine ha spiegato che si tratta di uno strumento utile per richiamare l’attenzione su una istanza. Quella dell’inclusione. Non è, la schwa, la via per abolire i generi o per usare un genere indistinto, si tratta, piuttosto, di individuare uno strumento per una lingua inclusiva. Silvia Costantino, della casa editrice indipendente Effequ, ha spiegato al Sole 24 Ore: “Non si tratta di legittimare dei generi attraverso il linguaggio, questi generi esistono di per sé! Si tratta invece di permettere alle persone di riconoscersi in un testo che altrimenti avrebbero visto come destinato ad altri.”

E se anche il Comune di Castelfranco Emilia, come annunciato su Facebook, ha scelto di usare la schwa per superare il maschile universale, una ragione c’è: la lingua la fa chi la parla. 

Una lingua è come un luogo: la abitiamo, la animiamo noi viventə, con le nostre intenzioni, i nostri valori, le nostre visioni. Le parole sono azioni: costruiscono mondi.

E mondi più inclusivi sono mondi più giusti per ogni persona. A ogni latitudine. A conferma infatti dell’urgenza del dibattito su espressioni linguistiche più inclusive c’è anche la sua estensione e diffusione nel pianeta. Non riguarda solo l’italiano: todes, ad esempio, è il termine proposto per sostituire todos e todas; mentre nei Paesi anglofoni, come ha spiegato Gheno, si discute dell’adozione di they al singolare al posto di he e she. 

Dentro Tara, quindi, abbiamo deciso di usare la schwa nei nostri testi.

Alcuni limiti, come in molte sperimentazioni, ci sono anche in questo caso. Ad esempio l’uso sistematico della schwa rende meno fluida la fase di elaborazione di un testo, anche se il carattere è presente tra quelli speciali dei più comuni programmi di scrittura. Si potrebbe obiettare, allora, proponendo di adottare l’asterisco o la chiocciola alla fine delle parole. Ma c’è un problema: questi segni grafici non hanno un suono mentra la schwa sì. Non solo è presente nell’alfabeto fonetico internazionale ma anche in alcuni dialetti, tra cui, ad esempio, il napoletano. Schwa è la vocale media per eccellenza e si pronuncia senza deformare la bocca, o con la bocca a riposo. Per chi parla bene inglese è ancora più facile capire, il suono è simile alla a iniziale di again o per i francofoni è come la e di petit. 

Infine scegliamo di raccontare la nostra scelta linguistica in questo momento, dopo averla sperimentata un po’, per un motivo: maggio è il mese mariano e ci sembra l’occasione simbolica per provare a contribuire a una narrazione nuova e inclusiva. 

Il nostro Codesign The Future, il 13 maggio, sarà dedicato al tema “donne, che impresa!” e OltreTara, la nostra rubrica del sabato con la proposta di temi interessanti, sarà caratterizzata da uno sguardo femminista sul mondo. 

Buona nuova narrazione, allora, e buon mondo nuovo!

Per contribuire alla conversazione entra nella nostra community Telegram Codesign The Future

Per approfondire:

Qui il video di Vera Gheno che spiega come pronunciare la schwa 

Qui una panoramica sulle regole e le pratiche dell’italiano inclusivo.

Federica Colonna

Responsabile comunicazione e strategie narrative TARA

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Tutte le imprese hanno un super potere: l’intelligenza dei team, quella capacità di pensare insieme moltiplicata che è molto più della somma delle competenze dei singoli membri del gruppo. Lavorare in team, però, non è sempre facile e aziende con tutte le carte in regola rischiano di non raggiungere gli obiettivi per un problema di relazioni tra persone e di benessere. Spesso le buone idee ci sono, le risorse pure ma manca qualcosa: il senso di essere una squadra. 

Niente paura: la capacità di lavorare bene insieme non è una caratteristica genetica dell’impresa, non ci sono aziende che ce l’hanno per nascita ed altre no. I team, proprio come le persone, cambiano e possiamo aiutarli a farlo. A questo serve il team working: creare senso di appartenenza, aumentare motivazione, responsabilità e benessere, raggiungere gli obiettivi con più efficacia e felicità.

Il lavoro di squadra nel mondo che cambia

Viviamo in un mondo complesso e mutevole, dove anche il lavoro cambia. Nessuno può più pensare di risolvere i problemi da solo, la regola è la collaborazione. Lavorare insieme però non è sempre semplice e i fenomeni recenti lo dimostrano: il malessere negli ambienti di lavoro è dilagante. Nel 2019 l’OMS ha dichiarato il burnout una sindrome, sperimentata, secondo il motore di ricerca Indeed, dal 54% dei giovani della Generazione Z. Le Grandi Dimissioni ne sono una conseguenza e non risparmiano l’Italia: rivela INPS che circa 307mila persone hanno lasciato il proprio lavoro nel primo semestre del 2022 con un incremento del 35% sul 2021. Il fenomeno, infine, riguarderebbe il 60% delle aziende italiane. Alcune provano ad affrontarlo ma non sempre sanno come. Il team working le aiuta: è prezioso per le imprese che vogliono prosperare con attenzione al benessere del gruppo e dei singoli che ne sono parte.

Cosa significa lavoro di squadra

Team working letteralmente significa lavoro di gruppo. Non solo saper fare squadra è tra le soft skills – le competenze non tecniche – più richieste dalle imprese ma è anche l’unico modo per raggiungere obiettivi complessi nello scenario mutevole in cui le imprese contemporanee operano. Dimentichiamo il capo che da solo determina le sorti di una azienda o il manager che risolve da solo i problemi: servono i talenti di tutti e tutte ed è fondamentale farli emergere e farli dialogare. L’obiettivo del team working è proprio questo: attraverso la facilitazione creiamo spazi di confronto, dialogo e gioco per riconoscere i talenti reciproci, connetterli e metterli a frutto. 

I benefici del team working

Quando le imprese chiedono un percorso di team working spesso non sanno cosa aspettarsi. Hanno le idee confuse ma avvertono con chiarezza il bisogno di cambiare: solo non sanno bene cosa. Partono dai problemi per cercare le soluzioni. Di solito lamentano un elevato turn-over, poca motivazione sul posto di lavoro, elevato numero di conflitti, un basso senso di appartenenza. Tutte conseguenze delle cattive relazioni.

L’esperienza sul campo, nelle aziende, ci ha mostrato che le relazioni abilitano il successo di un’impresa: quando non funzionano bloccano i team di lavoro che perdono tempo e energie. Il team working permette di leggere le dinamiche del team, di far emergere gli ostacoli, di sciogliere i nodi sia a livello di procedure che più profondo, di relazioni.

Il team working, quindi, trasforma i gruppi di lavoro: permette di affrontare le tensioni, abbassa il turn over e aumenta la motivazione, il senso di appartenenza e di responsabilità. In una frase: il team working fa in modo che un gruppo diventi una squadra vera dove le persone sappiano parlare con la prima persona plurale.

Il nostro approccio al lavoro di squadra

Le espressioni “team building” e “team working” sono molto diffuse e sono entrate nel vocabolario della consulenza alle imprese. Alle volte sembra che una gita in barca o una giornata passata a cucinare insieme possano bastare a creare un clima di fiducia e a cambiare i destini di un’impresa. Sono attività che possono portare benefici, alleggerire tensioni, ma non crediamo nelle formule magiche e neanche nell’applicazione meccanica di metodi e strumenti. Crediamo nei processi, nelle relazioni, nei team. Crediamo che ogni impresa e ogni gruppo di lavoro siano unici e abbiamo grande fiducia nelle soluzioni originali che possono trovare ai propri problemi. A patto, però, che siano messi nelle condizioni di pensare insieme e di esprimere tutta l’intelligenza che hanno. Spesso, infatti, le soluzioni non si trovano nei manuali di management o nelle case history più note. Sono invece già presenti, alla portata, ma le persone non le adottano perché bloccate da un cattivo clima, dalla sfiducia, dalla difficoltà a parlarsi.

Come si fa, allora, a cambiare clima? Attraverso un team working facilitato e sistemico: un ciclo di incontri durante il quale progettiamo insieme al gruppo le procedure e le pratiche da adottare per risolvere i problemi del gruppo. 

Le fasi di lavoro sono almeno 4:

  • lavoriamo alla costruzione di una soluzione prototipo
  • la sperimentiamo
  • raccogliamo i feedback e li integriamo
  • costruiamo un modello.

In tutte le fasi le persone del team sono pienamente coinvolte. Mentre costruiamo le soluzioni, infatti, vediamo cosa funziona e cosa no nelle relazioni tra persone:

alleniamo la capacità dei team di pensare insieme, di co-progettare e di comunicare in modo più onesto e empatico

Ci ispiriamo all’idea di Otto Scharmer, fondatore della teoria U, secondo cui un prototipo è una pista di atterraggio per il futuro perché consente di esplorare il futuro facendo, non solo analizzando. Non portiamo soluzioni da fuori, le disegniamo e sperimentiamo insieme. In questo modo saranno più efficaci, più condivise e i risultati durevoli.

Il percorso di team working

Tre strumenti di team working

Nella cassetta degli attrezzi del team working che funziona ci sono, tra gli altri,  il Triangolo della Facilitazione, il gioco del gomitolo, l’applicazione dell’Ikigai. Di cosa si tratta?

Il Triangolo della Facilitazione per un team working su misura

Il Triangolo della Facilitazione è il nostro strumento di lavoro principale, lo adottiamo all’inizio dei percorsi di facilitazione per capire come sta il team e quali temi si trova ad affrontare

Ogni vertice del Triangolo corrisponde a un’area dell’impresa: scopo, persone, procedure. Quando analizziamo insieme attraverso il gioco e il movimento lo scopo capiamo se i membri del team condividono il proposito, il senso profondo del lavoro insieme. Se non lo fanno non riusciranno a remare nella stessa direzione. Quando lavoriamo sul vertice delle persone, vediamo se c’è e qual’è il livello del benessere sul posto di lavoro. Ci chiediamo:

  • Come si sentono le persone che collaborano insieme?
  • Come arrivano al lavoro ogni giorno?
  • Le relazioni sono aperte e oneste oppure c’è un clima di paura?
  • Quale è il livello della sicurezza psicologica?

Infine, nel vertice dei processi capiamo se le procedure adottate funzionano o se il blocco che impedisce all’impresa di raggiungere gli obiettivi si trova qui. A volte semplicemente le riunioni sono pessime e si trasformano in una perdita di tempo (approfondisci nell’articolo). Il Triangolo della Facilitazione serve a progettare un team working su misura a partire dal team. Perché nessuna impresa è uguale ad un’altra e quello che funziona in una sarà inutile se applicato altrove allo stesso modo.

Il gioco del gomitolo nel team working

Il gioco del gomitolo è semplice ma ha un grande impatto: mostra lo stile di leadership nel team, le dinamiche che si scatenano quando le persone sono sotto stress, come funzionano (se lo fanno) le relazioni. In cerchio tutti e tutte si passano un gomitolo fino a formare una rete: la sfida è provare a infilare delle penne appese alla rete in altrettante bottiglie poste a terra. Non ci sono regole, solo una: raggiungere l’obiettivo in un tempo determinato senza aiutarsi con le mani ma solo tirando il filo. Le persone si scatenano! Spesso all’inizio domina la confusione che poi, però, lascia il posto a una specie di danza in cui c’è chi tira e chi lascia andare. Capita molte volta che durante il gioco la leadership passi tra le persone e che la responsabilità e la fiducia fluiscano. Alla fine è come se il team avesse tra le mani la fotografia di quello che non si vede, delle relazioni e delle forze profonde che lo guidano.

Il modello dell’Ikigai applicato al team working

L’IKIGAI, infine, è un modello da applicare per capire cosa conta davvero. Letteralmente significa “cosa conta nella vita”. Visivamente è molto semplice: quattro cerchi ed otto domande. Il senso del modello è quello però di fare qualcosa di difficile: aiutarci a capire chi veramente vogliamo essere noi nella nostra vita, come vogliamo inventarcela, come vogliamo migliorare il mondo che ci circonda. Vale per i singoli, è estremamente potente se applicato ai gruppi. Permette di identificare il proposito di un’organizzazione  e consente di disegnare, in maniera sinergica, una mappa che mostra come vivono l’organizzazione coloro che la abitano. Ci fa vedere, infine, quali potrebbero essere i passaggi utili per trasformare l’impresa in qualcosa che conta davvero nell’esistenza delle persone che ci lavorano.

Gli strumenti del team working non sono solo tre, sono molti di più. Capire quali applicare in un gruppo di lavoro è già un primo passo nell’analisi delle dinamiche di quel team. Possiamo giocare al gomitolo, usare l’Ikigai e il Triangolo in ogni situazione, anche prima di andare a fare la pasta fresca insieme. Le tecniche e le applicazioni non si escludono. Nel team working da escludere c’è solo la paura di vedere come va a finire e come l’impresa cambia- spoiler: lo farà in meglio!

Nella tua impresa c’è scarsa motivazione, alto turn over, poco senso di responsabilità?

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Se vuoi dare un’occhiata alla nostra proposta per team felici, segui il link: https://tarafacilitazione.com/team-felici/

Per approfondire:

Ascolta l’esperienza di AMREF health Africa -Italia 

Conosci meglio l’IKIGAI con Melania Bigi e Carlo Gandolfo 

4 Comments

  1. […] Qui puoi approfondire ancora un po’.  […]

  2. […] Qui puoi approfondire ancora un po’.  […]

  3. […] Il team working – letteralmente lavoro di gruppo – consente di far emergere ostacoli nascosti che rendono più difficile la collaborazione e allo stesso tempo permette alle persone di esprimere i propri talenti. Chi lavora spesso deve aderire a un ruolo prestabilito che non si modifica in base alla personalità, alla storia e alle attitudini della persona con una perdita di competenze e soft skills. Al contrario, il team working consente l’emersione delle competenze relazionali e fa dialogare i talenti: ogni persona può portare tutta se stessa sul posto di lavoro e non solo quello che ha imparato o le capacità tecniche che ha. Vuol dire includere le persone per intero e non solo la loro parte razionale nei processi di lavoro. […]

  4. […] Il team working – letteralmente lavoro di gruppo – consente di far emergere ostacoli nascosti che rendono più difficile la collaborazione e allo stesso tempo permette alle persone di esprimere i propri talenti. Chi lavora spesso deve aderire a un ruolo prestabilito che non si modifica in base alla personalità, alla storia e alle attitudini della persona con una perdita di competenze e soft skills. Al contrario, il team working consente l’emersione delle competenze relazionali e fa dialogare i talenti: ogni persona può portare tutta se stessa sul posto di lavoro e non solo quello che ha imparato o le capacità tecniche che ha. Vuol dire includere le persone per intero e non solo la loro parte razionale nei processi di lavoro. […]

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E’ possibile una leadership condivisa nella nostre imprese?
Il mito nelle organizzazioni

A quasi due settimane dal Codesign the Future di febbraio, ecco l’articolo e abstract! (settimane intense e scarsa memoria non aiutano).

Cercare i talenti o costruire gli spazi per farli emergere?

Forse la domanda era un po’ retorica, perché da tutte e tutti è emerso il tema della sicurezza sul luogo di lavoro come elemento chiave per l’emersione dei talenti.

Nella prima parte dell’evento abbiamo proposto un esercizio semplice e complesso allo stesso tempo: costruire la propria carta d’edentitá professionale, basata sui talenti che ci riconosciamo, che non ci riconosciamo e che abbiamo costruito nell’arco della nostra carriera. Quindi per chi non ha partecipato, lo riproponiamo qui: sapete quali sono i vostri talenti? Quelle qualitá naturali e innate che quando mettiamo in atto ci danno soddisfazione e piacere?

Ad esempio, a me viene abbastanza naturale prendermi cura dei dettagli senza perdere di vista la big picture, il disegno generale. Forse perché ho studiato architettura, ma è comunque qualcosa che sento essere mio. Ed è una qualitá che ha trovato nella facilitazione, nel mio lavoro, ampio spazio di espressione!

Ci sono poi delle qualitá che invece, per limiti culturali, facciamo fatica a vedere di noi stesse, che le persone intorno a noi vedono e riconoscono, ma che proprio perché non le riconosciamo noi stesse, rimangono un po’ come risorse sprecate.

A proposito, lo sapevate che la parola talento deriva prima dal greco, come unitá di misura, poi è diventata una moneta romana, ed infine, grazie alla famosa parabola biblica, ha assunto il significato che oggi diamo, di inclinazione: ognuno e ognuna di noi ha dei talenti innati, e non possiamo permetterci di sprecarli.

Quindi, c’è una responsabilitá personale nel superare i nostri limiti e accogliere e valorizzare i nostri talenti, ma c’è anche una responsabilitá collettiva.

Durante il Codesign è emerso con forza il ruolo che il sistema scolastico potrebbe avere, nella valorizzazione dei singoli, ma che purtroppo ancora non ha…

E quindi? Qual’è il ruolo delle nostre imprese?

Possiamo costruire dei luoghi lavorativi sicuri abbastanza perché le persone si sentano libere di essere se stesse/i?

Dalle vostre esperienze la risposta è positiva! Tutte noi abbiamo vissuto almeno una volta nella nostra carriera la sensazione di pienezza, empowerment, appagamento di quando stiamo dando il massimo e questo viene riconosciuto. E aumenta il senso di appartenenza, la produttivitá e la proattivitá.

E allora, che aspettiamo a rendere i nostri luoghi di lavoro piú sicuri?

Ecco alcuni elementi tratti dal nostro amato libro di Laloux, Reinventare le Organizzazioni:

Un elemento che è emerso molto forte è lo sviluppo di una cultura dell’errore: c’è bisogno di ambienti non giudicanti, in cui chiaramente ognuno si prende la sua responsabilitá, ma l’errore è permesso, addirittura celebrato, nel senso di accolto come via preferenziale per nuovi apprendimenti.

In un approccio sistemico l’errore come sbaglio non esiste: l’errore è un messaggio, come il conflitto, come l’emozione, che possiamo ascoltare e dispiegare (la traduzione migliore dell’inglese UNFOLD). Ed il messaggio è per tutto il sistema! Non serve trovare capri espiatori.

Piú riusciamo a costruire spazi sicuri, dove è possibile il feedback reciproco e l’errore come apprendimento, piú avremo sistemi resilienti o anti-fragili (antifragility is the new resilience).

Chiudo l’articolo invitandovi al prossimo Codesign, l’11 marzo, che avrá 2 novitá.

La prima l’orario: raccogliendo i vostri feedback abbiamo deciso di provare un format di 2 ore, dalle 17 alle 19. speriamo che piú persone interessate possano partecipare.

La seconda è che avremo un’ospite che introdurrá il tema del giorno!

Io continueró a supportare il processo facilitando, Federica Colonna, partner di TARA, ci guiderá nel tema IL MITO NELLE ORGANIZZAZIONI: L’IMPORTANZA DI UNA VOCE AUTENTICA NELLE RELAZIONI DI MARKETING.


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“Se la tua azienda fosse Babbo Natale cosa gli chiederesti”

Appunti per un team building natalizio!

Si sono chiusi così i due team building che io e Alessandro abbiamo facilitato prima di spegnere il computer per la pausa natalizia.

A fine anno, in ambito organizzativo, siamo abituati a lasciare spazio ai bilanci. I desideri sono faccende soprattutto private. Noi però abbiamo voluto lanciare una provocazione. Che succede se desideriamo insieme? E se la sfera dei desideri,  solitamente intima e silenziosa (da piccola mi hanno sempre detto che non potevo rivelare un desiderio altrimenti non si sarebbe avverato!), si aprisse al collettivo?

Lasciarsi con un desiderio è stato un modo per lasciarsi con dei piccoli progetti tra le mani, piccole tracce verso un futuro desiderabile, verso nuove prospettive.

Desiderare ha a che fare con le stelle (da de-sidera: mancanza delle stelle). Aprire le porte alle stelle, sperimentare l’appassionata energia che si sprigiona dal desiderare insieme è qualcosa di insolito in azienda. Per chi lavora in un’organizzazione conoscere i desideri di tutt/e può essere un motore per rimettersi in gioco non solo verso l’esterno ma anche verso l’interno.

Quello che è emerso è stato semplice e dirompente allo stesso tempo (a proposito: nessuno poteva desiderare di avere più soldi!): piccoli gesti che possono tradursi in nuove abitudini. Cominciano così le trasformazioni più profonde. In entrambi i casi i desideri avevano a che fare con piccole cose che possono costruire comunità, supportare le relazioni e innescare spirito di gruppo e appartenenza: uno spazio per giocare e ritrovarsi nelle pause dal lavoro, momenti di incontro e team building per stare insieme, una vacanza collettiva o un tavolo da ping-pong. E poi formazione, orari flessibili, un venerdì pomeriggio ogni tanto libero. Sono tracce, piccoli sassolini lanciati dietro di sé per indicare il cammino.

Ascoltarli è qualcosa di molto interessante e allo stesso tempo commovente perché svelano bisogni, ispirazioni, possibilità. E lo fanno in maniera lieve come è lieve il desiderio che lanciamo al cielo quando vediamo cadere una stella cadente.

Prima di esprimere un desiderio, però, abbiamo preparato il terreno. Nella facilitazione preparare il terreno significa fare in modo che, un passo alla volta, le persone si immergano totalmente nell’attività, lascino andare le resistenze e le paure e costruiscano un clima di fiducia necessario a fare un passo fuori dalla zona di confort.

In quello spazio sconosciuto possono incontrarsi diversamente da come si incontrano di solito, esplorare nuove domande e trovare nuove risposte.

E’ sempre un piccolo viaggio.

Nel nostro caso abbiamo approfittato del Natale per invitare i team a una festa. A giocare insieme e conoscersi più a fondo, a celebrare e ringraziare. Abbiamo chiesto a tutti/e di guardarsi indietro e riconoscere il cammino fatto, il contributo di ciascuno/a e ciò che si è imparato nel cammino.

Nel Dragon Dreaming  (una metodologia per sviluppare progetti in maniera collettiva utilizzando strumenti e approcci che vengono sia dal mondo del project management che dalle pratiche di consapevolezza indigena) una parte fondamentale di ciascun progetto è la celebrazione che occupa il 25% del totale delle economie, del tempo e dell’energia. Questo perché la celebrazione permette ai team di ritrovarsi dopo una grande impresa collettiva. Di tornare a sé e avere il tempo di guardarsi, confrontarsi, dichiararsi e ringraziarsi. Di costruire nel team una cultura del feedback. Guardando indietro si impara ad andare avanti, con più forza e maggior consapevolezza.

Se dimentichiamo di farlo, dimentichiamo di riconoscere lo sforzo per raggiungere l’obiettivo e questo a lungo andare ci svuota. Nella celebrazione ritroviamo il senso profondo di quello che stiamo facendo e del perché lo stiamo facendo.

Dentro la celebrazione ci si incontra in spazi anche molto commoventi e rigeneranti. Noi l’abbiamo fatto così: abbiamo chiesto a tutti i componenti dell’organizzazione di fare un dono natalizio ai propri colleghi riconoscendo che risorse, competenze, attitudini ciascuno/a porta al team.

Per cui a fine incontro le persone hanno potuto riconnettersi ai desideri propri e degli altri, sperimentare la forza del ringraziare e del donare e far emergere le emozioni attraverso il gioco e il divertimento.

Il regalo per noi?

Leggere fra i desideri la voglia di organizzare più spesso momenti come questo.

Ilaria Magagna

Cofounder e Facilitatrice TARA

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Quale leadership per le nostre rotte?
Intervista con Terziario Donna di Brindisi

Partiamo dalla fine: senza stress.

“Stravolgere tutto quello che abbiamo fatto finora è una tragedia, non un’opportunità: eravamo già esausti prima dell’avvento del Covid19!”.

Cambiare, se viene visto come un obbligo, non rappresenterà mai un’attività piacevole a cui dedicarsi e su cui investire.

Le persone che invece vogliono far evolvere la loro impresa vedono nel cambiamento un’opportunità e non è solo una questione di cashflow prospettico: sanno che l’evoluzione “riaccende la spinta visionaria dei primi tempi e porta nuovo entusiasmo”.

I “vecchi” imprenditori sono così…anche a 90 anni.

Come far cambiare le organizzazioni?

L’articolo continua sul blog delle nostre colleghe di PIANO BIS!

 

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Quale leadership per le nostre rotte?

Nuove Partnership per Nuovi Orizzonti
Prototipare il Cambiamento… senza stress!

Letteralmente leadership viene dall’inglese to lead che significa guidare, dirigere e, probabilmente, questo significato rappresenta quello di cui la maggior parte di noi ha avuto esperienza.

Ma la leadership non ha a che fare solo col guidare qualcun’altro. Non è solo qualcosa che esercitiamo sull’ altro da noi.

La leadership è innanzitutto un’esperienza personale: riconoscere il nostro potere, o potenziale, e agirlo. E’ un percorso di consapevolezza ed è strettamente legato al concetto di responsabilità.

Leadership è l’abilità di rispondere delle proprie azioni ed emozioni e dell’impatto che avranno sugli altri.

Se vogliamo costruire team potenti abbiamo bisogno di team dove le relazioni di potere fluiscano maggiormente e dove la leadership viene distribuita affinché le persone siano messe in condizione di far leva sul proprio potenziale per trovare soluzioni.

Ognuno di noi agisce la propria leadership in base alle sue qualità, attitudini, esperienze. Ci sono tante tipologie di leadership quante sono le persone in un team. Nei team resilienti ciascuna emerge quando il contesto lo richiede.

Ci sono momenti della vita di un team che necessitano di azioni forti e direttive, quali le emergenze; altri che hanno bisogno di visione e ispirazione, come l’inizio di un progetto; altri ancora che richiedono accoglienza, empatia e ascolto, ad esempio nei conflitti.

Per questo un buon leader e una buona leader dovrebbero essere leader generativi, leader cioè che non hanno paura a generare altri leader oltre a sé.

Ma come si rendono le nostre imprese luoghi dove la leadership può essere maggiormente condivisa?

Molti possono essere gli strumenti per aiutare i team a facilitarsi la vita: oggi ne condividiamo alcuni basilari, facilmente applicabili e replicabili.

Prima di tutto il cerchio: come disponiamo lo spazio durante i nostri incontri sviluppa o meno una cultura di collaborazione piuttosto che di competizione e permette alle persone di guardarsi negli occhi, interagire maggiormente e percepirsi sullo stesso piano.

Il turno di parola: darsi un tempo in modo che tutti e tutte abbiano possibilità di parlare, fare attenzione che in un incontro siano ascoltate tutte le voci perché ognuna porta uno sguardo necessario alla soluzione.

Documenti condivisi e accessibili a tutti: aumentare la trasparenza delle procedure. Le informazioni sono potere e se noi le condividiamo stiamo condividendo potere facendo in modo che più persone siano messe nella condizione di responsabilizzarsi rispetto alle decisioni e ai processi.

Forse questi strumenti per qualcuno possono sembrare banali, per altri desueti, per altri ancora fantascientifici: trovate voi stessi quelli che fanno più al caso vostro.

Importante introdurli uno alla volta, gentilmente, e solo quando una pratica è integrata, aggiungere la seguente.

La trasformazione richiede tempo e pazienza, ma una volta avviata, non si può tornare indietro!

…Buon esercizio della vera leadership e lasciamo sprigionare il potenziale delle nostre organizzazioni!

Ilaria Magagna

Cofounder e Facilitatrice TARA

2 Comments

  1. Stefano Giugno 10, 2020 at 5:50 pm – Reply

    Nella mia esperienza di vita , purtroppo i Leader che spesso ho incontrato lo facevano collegandosi alla loro ” Matrice di base ” cioè ; Visto che il proprio trauma attorno alla nascita gli rendeva impossibile controllare come andavano le cose in quel momento , il proprio subconscio aveva deciso di ” controllare ” gli altri , magari , con la maschera della guida .
    Immagino questa frase risulti FORTE e poco chiara , ma questo è il mio contributo .
    Un vero Leader è una persona che conosce nel profondo il momento in cui ha deciso di intraprendere quel percorso , e ne conosce OGNI emozione .
    Stef.

    • ilaria Giugno 20, 2020 at 9:04 am – Reply

      grazie Stefano per il tuo contributo.
      Come dici tu un vero e un buon leader deve prima di tutto conoscersi, sapere come reagisce di fronte alle sfide. Conoscersi e sapere quali sono i nostri punti di forza e le nostre fragilità e soprattutto l’impatto che hanno sugli altri è fondamentale quando agiamo come leader.

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Tre contenuti per capire il lavoro contemporaneo
Gestire il conflitto in azienda con la facilitazione.

Cosa significa conflitto nel team?

La domanda sembra banale ma non lo è! Non sempre, infatti, il conflitto si manifesta con una aperta lite alla macchinetta del caffè o con un pianto durante una riunione. Lo sappiamo: we are the champions (a nascondere il conflitto sotto il tappeto!)

Se individuare i sintomi di un conflitto non è sempre semplice, di conseguenza diventa complicato anche affrontarlo e  trasformarlo in un alleato per la crescita del gruppo.

Dedichiamo la nostra rubrica OltreTARA al conflitto, con un articolo, un podcast e un libro che ci aiutano a vederlo meglio e a gestirlo.

? Poche imprese si preoccupano della qualità delle relazioni.

Partiamo dai dati. Quelli della ricerca sul benessere in azienda di Phyd, Gruppo Adecco, e Radical HR (grazie, grazie: super interessanti).

Il 74,8% dei manager delle 300 aziende coinvolte nell’indagine riconosce la rilevanza del benessere dei lavoratori ma solo il 30,2% sta lavorando sul tema. Ora, un bel respiro: appena l’8,5% delle aziende tiene conto del social wellbeing, ossia delle buone relazioni nel team. Ecco: proprio qui si annida il conflitto!

Sul Sole 24 Ore per saperne di più.

⛔ Vade retro, hustle culture!

L’hustle culture è la cultura della competizione sul lavoro, portata all’estremo. E se proprio questo atteggiamento, spesso deleterio verso sé e verso le altre persone, fosse tra i motivi alla base del conflitto nei team?

Per saperne di più abbiamo scovato il podcast “Il lavoro non ti ama” con un episodio dedicato.

Buon ascolto, qui!

⭕ Va bene, ma perché affrontare il conflitto nel team?

Lo sappiamo: gestire il conflitto può sembrare una gran fatica. Ma trasformarlo produce un grande impatto. Su di noi come persone, sul gruppo, sull’impresa e sul mondo.

Noi siamo natura! Nonostante ci piaccia vederci come leoni sono la nostra interdipendenza e il desiderio di collaborare che ci hanno permesso di proliferare.

Lo scrive Viola Petrella per presentare il libro “Emergent Strategy”, qui.

Se ti trovi qui sappi che OltreTARA è la nostra rubrica settimanale con la raccolta di contenuti interessanti scovati in Rete.

L’abbiamo progettata per tracciare connessioni significative e per aiutare le organizzazioni a trovare ispirazione. Non abbiamo sempre il tempo di cercare, proviamo a farlo noi per chi condivide uno sguardo comune sul mondo.

Se hai libri, articoli, video, canzoni, disegni da suggerire, scrivi a Federica: [email protected]

Se vuoi sapere cosa abbiamo pubblicato in passato, seleziona la categoria “Contenuti dalla Rete” nel blog. Oppure vai qui.

Infine, se proprio non vuoi perderti nemmeno un post, siamo su Telegram, a portata di mano e telefonino!

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Inclusione e engagement: come promuoverle? E soprattutto: di chi è “il compito”? Si tratta di un tema strategico per la people strategy e spetta all’HR.

Per molto tempo la “professione HR” è stata considerata di supporto. Oggi viviamo una fase di evoluzione professionale: “People&Culture Manager”, “Chief People Officer” sono espressioni che stanno prendendo il posto di Human Resource. Nelle organizzazioni cresce la consapevolezza di un ruolo strategico e della rilevanza della dimensione umana: chi lavora non è una risorsa da “consumare” né una persona da dirigere, salvo poi lamentarsi della poca autonomia. Nello scenario contemporaneo è ormai chiaro che pensare e gestire una strategia per le persone è una funzione aziendale essenziale, strategica per la stessa vita organizzativa. 

Il fenomeno della Great Resignation – le Grandi Dimissioni spesso volontarie – è solo la punta di un iceberg di una trasformazione di sistema in corso. Le persone si interrogano sempre sul senso di quello che fanno e cercano organizzazioni inclusive e dinamiche, in grado di dare significato al lavoro e di coinvolgere. 

In un contesto complesso e in evoluzione rapida, come può evolvere la classica figura HR, diventare più inclusiva, supportare la ricerca di senso e favorire l’engagement?

La facilitazione aziendale è tra le risposte e fornisce strumenti per aumentare l’engagement e la capacità di attrarre e valorizzare talenti. A partire da una consapevolezza: inclusione e engagement sono strettamente correlate. 

Inclusione e engagement: lo scenario.

L’inclusione non è solo giusta, è produttiva e funziona come una leva strategica per attrarre talenti. Secondo l’Employer Brand Research 2023 di Randstad per il 54% dei lavoratori e delle lavoratrici, soprattutto tra i Millennials, è importante che l’azienda promuova attivamente un clima inclusivo. In un contesto dinamico, dove le persone non trascorrono più tutta la vita professionale in un solo posto di lavoro, il tema è rilevante e può determinare la sopravvivenza nel tempo di una organizzazione. 

Il dato è ancor più significativo se connesso con i livelli decrescenti di engagement registrati tra le generazioni. Secondo lo studio realizzato dalla società di formazione Dale Carnegie Training e pubblicato dal Sole 24 Ore, le persone della generazione Baby Boomer mostrano un grado di coinvolgimento mediamente più alto della Generazione X e Millennial. Ad incidere sulla diversa propensione potrebbero esserci fattori diversi tra cui la trasformazione del lavoro: di come lo facciamo e, più in profondità, del modo in cui lo pensiamo. Come hanno scritto Andrea Colamedici e Maura Gancitano nel libro “Ma chi te lo fa fare?”, il lavoro contemporaneo appare spesso privo di senso, incapace di mantenere le promesse. L’incantesimo si è spezzato. Ma non è solo un male. Abbiamo l’opportunità di riprogettare il lavoro e di ripensare le dinamiche su cui è basato. Chi si occupa di persone ha di fronte la grande sfida dell’engagement ma anche una preziosa occasione: riscrivere le regole del lavoro nei team senza limitarsi a una operazione di facciata e rimettendo le relazioni al loro posto. Il centro del sistema organizzativo.

La facilitazione aziendale per promuovere inclusione e engagement.

Per attrarre e mantenere talenti in azienda  chi si occupa di Umane Risorse  – dove l’inversione serve a sottolineare una trasformazione – può adottare la facilitazione. Cosa è?  L’insieme di approcci, metodi e tecniche per aumentare l’inclusione e l’engagement nei team – abbiamo scritto FAQ tematiche per approfondire

Facilitare vuol dire creare contesti organizzativi inclusivi dove le persone si sentono più sicure psicologicamente, più libere di mostrare il proprio talento e più motivate. 

A differenza della figura HR tradizionalmente intesa, l’HR facilitatore o facilitatrice pensa sì alla people strategy ma anche alla team strategy. Sa che sono due facce della stessa medaglia: anche se una organizzazione riesce ad attrarre talenti, scapperanno presto altrove se troveranno ambienti di lavoro tossici, dinamiche di relazione e di potere sbilanciate, team senza sicurezza psicologica. L’HR che facilita, quindi, ha l’obiettivo sì di attrarre e valorizzare talenti, ma anche di farli dialogare.

La facilitazione è un vero booster per l’engagement.
Ma nel concreto come si fa?

Tre tecniche per aumentare inclusione e engagement.

Il team working per rimuovere gli ostacoli nascosti.

Il primo step per aumentare inclusione e engagement è individuare i blocchi profondi che ostacolano la collaborazione. Una persona di talento non potrà mai esprimersi pienamente in contesti tossici. Il team working è letteralmente il lavoro di gruppo che permette di far emergere quello che le persone non riescono a comunicare con chiarezza e che spesso alimenta tensioni, conflitti, gossip. 

Il team working permette di nominare l’elefante nella stanza, quel grande ostacolo che c’è ma che nessuno indica apertamente. Dargli un nome vuol dire iniziare a superarlo.

Codesign del manuale per l’inclusione.

Il secondo step per aumentare l’engagement è il design partecipativo di procedure per l’inclusione. Vuol dire progettare in team le pratiche da adottare per facilitare un clima davvero inclusivo fondato sulle specifiche esigenze delle persone e dei team. Quando le procedure sono calate dall’alto, anche se pensate e disegnate con le migliori intenzioni, possono non corrispondere alla realtà dei gruppi che dovranno applicarle. Basti pensare che la maggior parte dei piani di cambiamento organizzativo falliscono perché nascono altrove, fuori dai team. 

Il Codesign del manuale per l’inclusione è invece un’attività che permette di creare ambienti inclusivi…includendo le voci delle persone che lo useranno davvero.

Design collaborativo della comunicazione interna.

Il terzo step per facilitare l’inclusione e aumentare l’engagement è la scrittura collaborativa di un manuale ad uso interno per il linguaggio inclusivo. La comunicazione interna non può essere la stessa in ogni organizzazione, pena la difficoltà a coinvolgere davvero le persone. Affinché la comunicazione interna sia una leva strategica di partecipazione e coinvolgimento è necessario pensarla insieme, come la voce organizzativa, un coro che rispecchia la personalità globale dell’azienda. Definire insieme le regole del linguaggio inclusivo da adottare è prezioso per mettere a terra una people strategy che davvero pensa alle persone.

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Perché è fondamentale imparare a fare domande migliori? I contesti caratterizzati da un alto livello di complessità, diversità e interdipendenza in cui viviamo ci richiedono un cambiamento dalla cultura del dire a quella del domandare perché non possiamo illuderci di sapere tutto. Più impariamo ad ammettere la nostra ignoranza e fare umile ricerca di informazioni, più saremo in grado di costruire relazioni positive basate sulla fiducia, comunicare in modo efficace e collaborare per raggiungere gli obiettivi.

Mi sono appassionata al tema delle domande sia per ragioni personali, come racconto in un altro articolo, sia perché è un tema attuale e sempre più necessario vista la complessità in cui viviamo. Come spiega Ilaria Magagna in un suo recente intervento, “relazioni e interdipendenza sono la chiave di lettura di un contesto complesso” e le domande, se poste con un certo tipo di atteggiamento, sono un potente strumento relazionale e generativo.

Domandare deriva dal latino de-mandare ovvero affidare, e richiama una dimensione relazionale di scambio e reciprocità, diversamente da chiedere, che implica un’asimmetria, un bisogno (voglio ottenere qualcosa) e da interrogare, che porta con sé l’idea di verifica e controllo. La domanda è quindi un mezzo di riconoscimento reciproco attraverso il quale possiamo costruire e alimentare relazioni positive.

Viviamo in un mondo sempre più complesso, interrelato e culturalmente diversificato e abbiamo bisogno di saper costruire relazioni per far fronte alle sfide sia a livello personale che organizzativo. Non possiamo però illuderci di comprendere persone diverse e interagire con loro se non siamo in grado di fare domande e ammettere che le altrə possono conoscere cose che potremmo aver bisogno di sapere per svolgere una attività, portare a termine un compito o raggiungere un obiettivo.

La capacità di domandare è in questo senso destinata a diventare necessaria sia nella vita privata, visti i livelli di diversità con cui ci interfacciamo nei contesti quotidiani, sia nelle organizzazioni, per facilitare la comunicazione e la collaborazione fra team interdipendenti, ma sarà imprescindibile soprattutto per chi esercita ruoli di leadership, perché avrà sempre più bisogno di creare contesti che favoriscano una comunicazione aperta e trasparente.

Nonostante ciò, nella nostra cultura viene ancora privilegiato il dire rispetto al domandare e le domande richiamano spesso vissuti ansiogeni legati a esperienze di vita personale, scolastica o lavorativa. Cresciamo in contesti nei quali ha più valore portare a termine un compito piuttosto che costruire relazioni, di conseguenza dover domandare passa per segno di debolezza e ciò cresce con l’aumento del livello gerarchico: chi ricopre posizioni di responsabilità e leadership deve sapere e saper fare, deve affermare. Diventare consapevoli di questi assunti culturali taciti, soprattutto quelli relativi all’autorità, alla fiducia e alla relazione, è essenziale per poter disapprendere ciò che non è più funzionale e favorire un nuovo apprendimento attraverso comportamenti e attitudini diversi. Tuttə ne siamo capaci, si tratta di capire come fare.

Innanzitutto c’è modo e modo di fare domande: cosa, quando e come domandiamo sono elementi chiave per costruire una relazione positiva, che a sua volta facilita la comunicazione e la collaborazione. Spesso poniamo domande che in realtà sono affermazioni, consigli o opinioni camuffate. Le domande generative, quelle che permettono all’interlocutorə di aprirsi, sono invece domande di cui non conosciamo già la risposta. Scaturiscono dalla curiosità e dall’interesse di avere informazioni che non possediamo e hanno il potere di svelare mondi non ancora esplorati, favorendo processi di apprendimento e di cambiamento.

Secondo quanto spiega Edgar H. Schein nel suo libro “L’arte di far domande”, la principale differenza tra dire e domandare è una questione di status temporaneo: dire significa mettere l’interlocutorə in inferiorità perché si presuppone di comunicare qualcosa che l’altrə non sa e dovrebbe sapere; al contrario con la domanda ci rendiamo momentaneamente vulnerabili (umiltà qui ed ora) perché ammettiamo la nostra ignoranza e ci mostriamo dispostə
all’ascolto. Ed è proprio questa subordinazione temporanea che trasmette la sicurezza psicologica necessaria per esprimersi liberamente, creare fiducia e alimentare la costruzione della relazione. E tutto ciò diventa estremamente potente se chi pone la domanda, con atteggiamento di curiosità e interesse, è la persona che esercita leadership.

Domandare in quest’ottica diventa un’arte perché porta con sé un forte potere creativo ma è anche un metodo che richiede pratica ed esercizio. Si può iniziare da subito abituandoci a dire meno e provare a domandare di più, con umiltà e autentico interesse.

Federica Tonolli

Formatrice

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