Il mito delle organizzazioni: un viaggio dell’eroe che ispira e unisce

Il mito nelle organizzazioni
Le tre metafore del conflitto

Consigli musicali per conciliare la lettura: The Cinematic Orchestra// To build a Home

“Il mito è un ingrediente vitale della civiltà umana, non una favola inutile ma forza attiva costruita nel tempo” 

cit. Bronisław Malinowski.

L’incontro con i nostri miti

Gli appassionati di Guerre Stellari lo sanno: il viaggio dell’eroe è fonte di ispirazione e di molteplici emozioni. Ecco, infatti, il senso del mito capace di andare ben oltre le definizioni pur significative restituite dai dizionari.

Così, se per Treccani mito è una narrazione tramandata con valore simbolico e un racconto a fondamento di un sistema sociale, per ciascuno di noi è qualcosa di più: fa parte della nostra esperienza, permea la vita di ogni giorno, fa compagnia ai nostri intimi desideri. Il mito lo abbiamo incontrato tante volte, a partire dall’infanzia.

Ognuno di noi ha infatti un eroe personale: una persona con straordinarie capacità in grado di indicarci la via e di generare con le proprie competenze un impatto sul mondo.

Durante CoDesign l’indagine sul proprio mito ha permesso una immersione nelle esperienze individuali, nell’infanzia e nell’adolescenza, e l’emersione di figure profondamente diverse: nonni, genitori, poeti, inventori. Tutti  eroi con qualcosa in comune: ci dicono chi potremmo diventare e come potremmo cambiare il mondo.

È questa in ogni cultura e in ogni tempo la funzione dell’eroe: ci aiuta a entrare in connessione con i desideri profondi, ispira la nostra visione di futuro, ci racconta una possibilità. Ecco cosa è il mito: il racconto di una trasformazione possibile.

Il mito è un invito al viaggio

Attenzione, però. Il viaggio dell’eroe non è solitario.  Secondo Joseph Campbell, tra i più grandi studiosi del mito, il potere del viaggio dell’eroe non è solo mostrare una trasformazione e il suo compimento, ma piuttosto invitare a compiere lo stesso viaggio trasformativo. Cosa accade, allora, quando le organizzazioni si connettono con il proprio mito? Come cambiano?

L’ esplorazione durante CoDesign ha fatto emergere la ricchezza dell’impatto del mito sulle organizzazioni!

Così, per le organizzazioni connettersi con il proprio mito e restituirlo significa rinunciare a una comunicazione autoreferenziale e raccontare come sarà il futuro generato dalla propria azione attribuendo un ruolo alla community. L’organizzazione connessa al proprio mito può rivolgere un autentico invito al viaggio, chiamando le persone ad essere parte di una comunità che condivide una prospettiva futura.

Invenzione o scoperta?

Il mito, però, non semplicemente s’inventa. Il mito si scopre.

Se nella vita di una persona è più facile incontrare l’eroe nell’infanzia o nei grandi momenti di formazione e cambiamento, come l’adolescenza, nella vita di un’impresa il viaggio dell’eroe comincia già all’origine della sua storia.

È all’inizio di una impresa che sono evidenti il perché della sua esistenza, il proposito di chi la fonda, la prospettiva immaginata.

Il capitale narrativo di una organizzazione, ossia la sua capacità di generare significati, è vivo e attivo alle origini, nelle intenzioni. Prendendo spunto dalle posizioni dell’economista Luigino Bruni, autore di “Capitale narrativo”, e parafrasando un supereroe, Spiderman, a un grande capitale narrativo corrisponde una grande capacità di generare comunità. Così avviene il prezioso passaggio da una comunicazione orientata a “parlare a”, ad una capace di “parlare con” le persone.

Insomma, il mito è il fondamento di ogni attività di storytelling, l’insieme delle tecniche per raccontare storie significative e ingaggianti.

Non si tratta di restituire in modo esplicito il mito o una unica, ripetuta, storia, ma piuttosto storie diverse e connesse nel profondo allo spirito di uno stesso processo di trasformazione.

Un’organizzazione, proprio come una persona, non può non raccontare storie! Jonathan Gottschall, docente universitario e autore di “L’istinto di narrare”,  spiega che proprio la capacità di raccontare è la caratteristica distintiva dell’uomo, tanto da poter definire gli esseri umani storytelling animal: non solo impariamo dalle storie e rendiamo comprensibile la realtà attraverso le storie, ma sentiamo tramite le storie e ci alleniamo a provare emozioni, sentendole nel profondo anche senza doverle trarre da una esperienza vissuta nel quotidiano.

Durante CoDesign ce lo siamo chiesto: nel rumore incessante di tante storie narrate, ce n’è qualcuna che ricordiamo di più?

Il tessuto del mito

Ma attenzione! Non ogni storia è in grado di evocare il mito profondo. Il mito, infatti, è come un tessuto. Ha una trama orizzontale e una verticale. 

La trama orizzontale è il contenuto oggettivo e risponde a domande come: chi sono e cosa faccio?

La trama verticale scende in profondità dentro le persone e le organizzazioni cercando di affrontare questioni come: cosa mi rende unico e perché gli altri dovrebbero credere nel mio sogno e provare a realizzarlo con me?

La trama orizzontale non basta a esplorare il mito e a ingaggiare le comunità: è con la risposta alle seconde domande che il viaggio dell’eroe comincia e che gli stakeholder si sentono chiamati alla condivisione.

Attenzione al capitale reputazionale

Attenzione! E se lo storytelling non è coerente e alle storie narrate non corrispondono comportamenti e pratiche organizzative?

Un esempio: il greenwashing, ovvero la strategia per cui un marchio abbraccia un racconto orientato alla sostenibilità e alla circolarità ma poi non accompagna la comunicazione con iniziative adeguate.

Una pratica diffusa, tanto che secondo l’indagine tematica annuale della Commissione Europea il fenomeno è in crescita e nel 42% dei siti web analizzati le affermazioni di natura ecologica si possono configurare come false o ingannevoli. Ma il fenomeno è antico tanto che Christian Salmon, autore di “Storytelling, la fabbrica delle storie”, ha scritto: “A partire dagli anni Novante del Novecento negli USA come in Europa la capacità narrativa è stata trasformata dai meccanismi dell’industria dei media in arma di persuasione”.

Anche se mentire è possibile , però, nel lungo termine non conviene perché comporta un rischio rilevante per il proprio capitale reputazionale.

Il capitale reputazionale è la misura del valore della reputazione di una azienda e può essere accumulato e scambiato per fiducia e riconoscimento sociale.

Secondo l’Università di Oxford il valore del capitale reputazionale è fondamentale tanto che presso l’ateneo è stato istituito il Center for Corporate Reputation: la crescente aspettativa dell’opinione pubblica e la capacità più capillare dei gruppi di attivisti renderebbero il tema della reputazione sempre più economicamente rilevante.

Lo storytelling, quindi, per funzionare nel tempo deve proteggere il capitale reputazionale e deve fondarsi su un atto di responsabilità e di onestà.

Lo storytelling, insomma, fa bene. Alle organizzazioni e alle persone. Lo scriveva già Gianni Rodari secondo cui la fiaba è uno strumento di profonda libertà: “è pronta a immaginare il futuro che altri vorrebbero semplicemente farci subire”.

Letture consigliate:

Il capitale narrativo – Luigino Bruni

https://www.cittanuova.it/libri/9788831175388/il-capitale-narrativo/

Le distese interiori del cosmo – Joseph Campbell 

https://www.edizioninottetempo.it/it/le-distese-interiori-del-cosmo

L’eroe dai mille volti – Joseph Campbell

https://www.lindau.it/Libri/L-eroe-dai-mille-volti

L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani  – Jonathan Gottschall

https://www.bollatiboringhieri.it/libri/jonathan-gottschall-listinto-di-narrare-9788833929712/

Storytelling. La fabbrica delle storie – Christian Salmon

https://fazieditore.it/catalogo-libri/storytelling/

Federica Colonna

Responsabile comunicazione e strategie narrative TARA

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Nei primi 6 mesi del 2022 oltre 1 milione di persone hanno dato le dimissioni in Italia con un aumento del 31,73%. Sono i dati dell’Osservatorio INPS e fotografano una chiara tendenza post-pandemia: le priorità di chi lavora sono cambiate. Le persone, soprattutto tra i Millennials, preferiscono imprese attente al clima aziendale, dove lavorare in modo agile e con uno scopo più alto. Per attrarre e valorizzare talenti è necessario ispirarli. E per farlo serve un nuovo modello di leadership aziendale.

Per noi è la leadership diffusa.

Una definizione di leadership aziendale diffusa.

Una premessa: il leader non è il capo. 

C’è una chiara differenza tra capo e leader e l’ha spiegata Daniel Goleman, esperto di scienze comportamentali e autore di “Intelligenza Emotiva“. La leadership, ha chiarito, è la capacità di motivare e ispirare le persone. Permette di raggiungere insieme un obiettivo condiviso con consapevolezza, cura e la capacità di creare risonanza.

La leadership, quindi, è un potere. Permette di far accadere le cose. Non appartiene a qualcuno in modo fisso, riguarda invece la capacità di tutte e tutti di prendersi una responsabilità nella propria area di competenza.

La leadership, inoltre, è personale e collettiva allo stesso tempo: è una regola del Process Work, l’approccio multidisciplinare ideato da Arnold Mindell. Avere consapevolezza del nostro potere personale vuol dire mettere attenzione al modo in cui lo usiamo in linea con i nostri valori. Quando agiamo la nostra leadership produciamo sempre un impatto sui gruppi e sulle organizzazioni che abitiamo. La leadership, infatti, incide sulle relazioni ed è validata dalle regole e dalle procedure che decidiamo di darci.

La leadership non è fissa, è dinamica. Non è sempre la stessa persona ad avere la leadership.  A seconda delle situazioni, il potere passa tra le persone perché nei diversi momenti della vita di una organizzazione c’è bisogno di competenze differenti. Quando siamo in emergenza serve decidere, quando elaboriamo strategie dialogare.

La leadership è generativa. Non serve a gestire persone ma a far nascere altre leadership. Leader crea leader, questa è la visione.

Ecco allora cosa è la leadership diffusa: un potere generativo e condiviso di cui essere consapevoli per produrre cambiamenti nella vita dei team e delle organizzazioni.

Cosa non è la leadership aziendale

  • Non è un job title: tutte e tutti abbiamo un potere, non solo chi ha la scritta “boss” sulla porta dell’ufficio.
  • Non è immutabile: difficilmente esiste una leadership sempre buona o sempre cattiva. I modelli tradizionali sono superati ma a volte c’è bisogno di chi decide con fermezza. Se la casa brucia, le fiamme vanno spente subito.
  • Non è per sempre: le persone cambiano, le aziende evolvono, le leadership anche. A volte per fare spazio alla leadership altrui è necessario farsi da parte, capire quando e come è anche questa una dote di leadership.
  • Non è solitaria: nessuno ha tutte le competenze per sapere e decidere sempre tutto. In una organizzazione c’è una sola intelligenza superiore: quella collettiva che appartiene al team.

Esempi di leadership.

Nel concreto, cosa fa chi abbraccia la leadership diffusa?

Vede nel conflitto un’opportunità.

Nei team emergono tensioni, è fisiologico. Non è naturale invece alimentare comportamenti conflittuali: possiamo scegliere come agire quando una “bomba scoppia”. Se abbracciamo la leadership diffusa vuol dire che ci mettiamo in ascolto anche dei conflitti, perché, come abbiamo scritto nella Mini-Guida sul tema, sappiamo che portano un messaggio e si tratta spesso di una domanda di cambiamento.

Facilita la diversità.

Spesso appendiamo sulle nostre porte la targhetta “Diversity & Inclusion” ma non basta. Facilitare la diversità vuol dire sceglierla per principio e nella pratica e far dialogare talenti distanti per attitudini e competenze. Secondo il Politecnico di Milano, la collaborazione tra persone di origine culturale diversa è un valore aggiunto sperimentato che rende le organizzazioni più efficaci.

Crea e alimenta la sicurezza psicologica.

Solo quando i nostri team sono ambienti sicuri, dove possiamo comunicare con franchezza e apertura, la leadership può diventare davvero condivisa e passare tra le persone. La sicurezza psicologica per Amy C. Edmonson, autrice di “Organizzazioni senza paura”, è la convinzione che in un ambiente lavorativo sia possibile assumersi dei rischi relazionali. Quando c’è sicurezza cambia radicalmente il modo in cui lavoriamo insieme aumentando il livello delle performance.

Employer branding, learning organization e non solo.

La leadership diffusa produce un profondo impatto sull’azienda che la adotta.

Permette, infatti, di attrarre e valorizzare i talenti, una sfida oggi cruciale. Basta guardare i numeri: secondo la ricerca BVA Doxa per MindWork, il 75% di chi ha meno di 34 anni e appartiene alla categoria blue collar ha lasciato almeno un posto di lavoro per motivi di malessere. Valorizzare le persone per tenerle con noi vuol dire nutrire il loro benessere anche in termini di possibilità di espressione, lasciando spazio alla loro capacità di leadership. Se creiamo un ambiente dove chi lavora può espandere il proprio potenziale, anche la strategia di employer branding dell’organizzazione sarà potenziata rendendo l’azienda una calamita, più attrattiva.

La leadership diffusa inoltre trasforma l’impresa in una learning organization: un’organizzazione che impara. Adottare il modello vuol dire creare un ambiente sicuro in cui potersi scambiare feedback, non solo tra pari. Il feedback è la risposta che diamo a un comportamento, quando riconosciamo il buon lavoro di qualcuno è apprezzativo, quando muoviamo con garbo una critica è migliorativo e permette di apprendere dagli errori. Solo nei team dove la leadership non è rigidamente attribuita a una sola persona il feedback circola e consente la crescita.

La leadership diffusa permette a tutte le voci presenti nell’organizzazione di esprimersi rafforzando la cultura aziendale, l’asset più difficile da imitare ed emulare. La cultura di un’impresa è un capitale narrativo prezioso: secondo un approfondimento dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano potrebbe aumentare il valore economico di chi lo detiene fino a 37 volte quello originario.

La leadership diffusa, infine, produce responsabilità diffusa nei team e all’interno dell’azienda. Agire da titolare vuol dire prendere con più velocità tante piccole scelte e, come sappiamo, l’impatto delle micro-decisioni in azienda è particolarmente rilevante: sono tante, frequenti, possono bloccare o mettere le ali a una attività.

Lavorare sulla leadership.

Non capita quasi mai che un’azienda chiami TARA Facilitazione con l’intento esplicito di lavorare sulla leadership. Spesso lo fa per altro e dopo un primo assessment capiamo che c’è bisogno invece di affrontare il tema. Alcuni segnali ci aiutano a capirlo: turnover elevato, scarsa motivazione, difficoltà a prendere decisioni, riunioni inconcludenti.

Se il lavoro sulla leadership non è mai uguale per tutte le organizzazioni, ogni volta la facilitazione produce lo stesso risultato: permette alle leadership presenti di emergere e di trovare il proprio spazio di espressione. La facilitazione fa fiorire leader, come raccontano tante imprese nel nostro podcast sulla trasformazione organizzativa.

Tra i temi su cui lavoriamo:

  • stili di leadership, per aumentare la consapevolezza sul proprio potere personale
  • feedback, per migliorare la comunicazione interpersonale
  • conflitto, per leggere il messaggio che porta
  • errore, per trasformarlo in un’occasione di apprendimento

Ci occupiamo di trasformazione delle organizzazioni.
Scriviamo una newsletter sul tema: è mensile, breve, ricca di strumenti per le imprese che cambiano.

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Pronti e pronte per raggiungere nuovi orizzonti?

Solcare i mari dell’innovazione per far evolvere la propria organizzazione e il proprio modello di business è avvincente, stimolante, entusiasmante.

Diciamoci però anche l’altra verità: è faticoso, stressante ed estremamente rischioso (anche in termini economici).

Quando mancano traiettorie chiare da seguire succede che numerose imprese alzino lo sguardo al cielo e si domandino: – Ma non sarebbe meglio cercare dei partner con cui mettersi in viaggio, anziché far tutta questa fatica da soli?

Molti lo pensano, ma farlo davvero è impegnativo.

Cosa fare, allora?

Abbiamo risposto insieme alle nostre partner, appunto, di Piano Bis!

La fatica di costruire partnership.

La nostra forma mentis non ci aiuta – o almeno, non sempre. Proveniamo da una cultura della performance individuale resa ancor più solida dall’educazione scolastica. Impariamo a competere, non a cooperare.
Il primo passo per costruire partnership sostenibili e durevoli è cambiare assetto mentale.
Il primo investimento, quindi, è di natura emotiva. Costa fatica, ma paga – anche a breve termine!

Partnership fondate sul valore.

Costruire partnership durevoli significa evitare i matrimoni combinati!
Spesso alla base della relazione imprenditoriale c’è l’esigenza di rispondere a una domanda del mercato e quella di ampliare competenze e servizi per farlo al meglio. Tutto necessario ma non sufficiente affinché la partnership sia sostenibile e paghi l’investimento iniziale. La pietra d’angolo della partnership è il valore condiviso: per quale proposito siamo nate come imprese?
Quali valori condividiamo come bussola che ci guida nel tempo e nel lavoro quotidiano?
Quali comportamenti consideriamo fondamentali nella relazione e nella reciprocità?
Rispondere a queste domande vuol dire investire tempo, energie e risorse in relazioni più solide e in cui la fiducia sia una moneta di scambio accettata e funzionale.

Il feedback per costruire partnership solide.

Una volta individuata l’azienda partner, il prossimo step è: sperimentare. Proprio come in un processo di design dei processi, le relazioni si testano ed esistono gli strumenti per farlo. Uno su tutti: il feedback.
Quando sperimentiamo la partnership sul mercato è fondamentale cogliere i feedback dai clienti, dagli stakeholder, dall’ecosistema. Senza dimenticare di scambiare feedback tra partner. Fanno bene nella vita privata, figuriamoci in quella aziendale!

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Ho un’anima razionale.

Devo confessare che quando qualcuno mi stimola ad usare altri canali oltre alla razionalità sono sempre un po’ diffidente. Appartengo alla generazione di persone che hanno maturato l’idea secondo cui disporre di un buon modello di analisi razionale-preventiva è garanzia di buoni risultati. Salvo poi scontrarsi con le variabilità del sistema.

Ancora oggi, dopo varie vite vissute a scontrarmi con la variabilità dei sistemi organizzativi, quando mi capita di imbattermi in quelle pratiche che cercano di farti accedere alla altre parti di te, ad usare altri canali di indagine, tendo ad essere un po’ diffidente. Forse, senza rendermene conto, ho ancora nel DNA la cultura meccanicistico/razionale.

All’interno del team TARA facciamo largo uso delle pratiche appena citate.

Ancora oggi, dopo un anno di collaborazione, entro sempre nelle sessioni di lavoro con un po’ di diffidenza. E, tuttavia, ne esco sempre con un senso di MERAVIGLIA!

Ancora mi meraviglia l’efficacia che queste pratiche hanno per far convergere le decisioni del team. Mi meraviglia come si sfaldino i pregiudizi. Mi meraviglia  come le idee si  mescolino tra di loro. Mi meraviglia come le idee prendano una vita propria senza padroni e come diventino percorso per il team.

Sono troppo generico? Bene, ve lo racconto con un esempio.

Mi riferisco all’ultima esperienza  di qualche mese fa, in occasione dell’incontro di inizio anno del team TARA. Dopo mesi di lavoro on-line abbiamo costruito un incontro dal vivo.

Avevamo tre macro argomenti da affrontare:

  1. Esplorare il 2020: cosa lasciamo e cosa ci portiamo nel 2021.
  2. Visione 2021: cosa vogliamo succeda entro  dicembre 2021 e quali i passi per arrivarci.
  3. Definizione obiettivi 2021 intorno a prodotti, cura del team, sviluppo clienti e partner

Insomma una normale riunioni di team. Fin qui nulla di strano. Un usuale incontro di inizio anno.

Inusuali  sono stati gli strumenti che abbiamo usato per indagare le possibili risposte alle nostre domande. Non vi voglio tediare con il nostro lavoro del fine settimana, vi racconto solo uno dei percorsi che abbiamo fatto: quello relativo alla scelta dei prodotti/servizi su cui focalizzare la nostra attenzione.

È una fase molto intensa per TARA, la nostra startup. Stiamo lavorando alla definizione della nostra offerta. E lo facciamo, come si fa di solito: stiamo dando un nome alle esperienze, definendo un ambito, un target…Questo con lo scopo di dare evidenza all’esperienza delle nostre socie, consolidata in anni di facilitazione dei processi di trasformazione.

Avevamo  circa 15 serie di esperienze su cui costruire dei format che possono essere veicolati e comunicati come dei “prodotti”. Tuttavia avevano necessità di concentrarci su tre-quattro di queste per focalizzare tutte le energie del team.

Come al solito quando devi decidere su questi argomenti si comincia a parlare e…si ragiona si ragiona..c’è chi tende da una parte chi da un’altra…E questo, spesso accade, perchè ognuno tende verso le cose su cui si sente maggiormente a proprio agio. C’è chi ha maggiore familiarità con uno specifico segmento di clientela, oppure su un’area di Business o magari su un tema specifico. Questo spesso condiziona le scelte. Mi è capitato molte volte di partecipare a riunioni di questo tipo. Riunioni infinite, talvolta estenuanti!

In quel pomeriggio di Febbraio, in poco meno di due ore siamo arrivati a decidere! Come?

Beh, abbiamo fatto tutte quelle cose curiose che ti fanno fare le facilitatrici.

Ve le racconto!

Abbiamo scritto su dei bei fogli colorati il nome del prodotti. I prodotti a cui stiamo lavorando per supportare le imprese nei processi di trasformazione, come dicevo sono circa 15. Solo per fare alcuni esempi:

  • Aiuta le imprese a scoprire il proprio why…
  • Team Building online…
  • Trasformare il Conflitto in un’occasione di crescita…
  • Migliora la tua governance: sociocrazia e sistemi di sel management…
  • Come creare un piano di comunicazione partecipato…
  • Ecc ecc

Abbiamo messo a terra i foglietti nascondendo il nome del prodotto e successivamente li abbiamo disposti a caso nello spazio.

E da qui è iniziata l’esplorazione! 

Ognuno di noi ha cominciato a muoversi nello spazio. Nella stanza c’era un bel camino! C’è chi si è spostato verso l’uscita, verso la luce,  chi verso il fuoco, verso l’interno. L’esercizio consisteva nel “Salire” con in piedi sui fogli, ascoltare sensazioni, osservando le visioni, le suggestioni, le immagini che ti arrivavano.

A questo punto ognuno di noi doveva rispondere a due domande:

  1. Che valore ha questo prodotto per il cliente ?
  2. Che valore ha questo prodotto per il mondo ?

Quando abbiamo scoperto i fogli, abbiamo rivelato le sensazioni, visioni, immagini che ognuno di noi aveva sentito o visto.

E qui la MERAVIGLIA !

La concordanza di sensazione, di punti di vista, di priorità che sono emerse dal team è stata a dir poco IN-CREDIBILE! Ed è stato altrettanto sorprendente come, la risonanza del team, abbia consentito di compiere delle scelte in modo rapido e condiviso.

Come dicevo, ho un’anima razionale e spesso non riesco a capire come sia possibile dare valutazioni sfaccettate ma coerenti e concordanti. In poco meno di due ore abbiamo deciso su cosa far convergere le nostre forze nei prossimi 12 mesi relativamente ai format dei nostri servizi.

Questo accadeva a Febbraio. Sono passati meno di due mesi e siamo in dirittura d’arrivo per far uscire i primi 4 prodotti.

Se come me avete un’anima razionale provate ad osservare gli stessi fenomeni con altre prospettive. Non cambierete la vostra anima razionale ma probabilmente sarete colpiti dalla mia stessa meraviglia!

Non capisco come faccia a funzionare, ma funziona e… forse, è ciò che conta!

Alessandro Guidi

Business Development TARA

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Vi proponiamo la seconda puntata di Matrix è dentro di noi, il nuovo format in cui Daniel Tarozzi dialoga con pensatori e attori del cambiamento confrontandosi con loro sulla nostra percezione della realtà e su tutto quello che c’è oltre gli schemi e gli stereotipi. In questa seconda puntata Daniel Tarozzi si confronta con Melania Bigi e Ilaria Magagna di Tara Facilitazione. Parleremo di come facilitare il cambiamento, di cosa sia la facilitazione, ma anche di cosa significhi ripensare il lavoro in questo momento storico. E molto altro ancora.

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Maternità e leadership: quale filo rosso le lega? 

In che modo diventare madre ha un impatto sul potere personale? 

Vogliamo contribuire alla co-creazione di una nuova cultura della genitorialità nelle imprese e abbiamo accolto con profonda sintonia la proposta di intervista a Melania Bigi nel podcast Radio Ossitocina su un nuovo modo di intendere il potere connesso al diventare madri: la leadership rigenerativa

Condividiamo l’episodio condotto da Sara Galeotti con Erika Tabloni e Melania.

 Maternità e leadership, il podcast. 

 Cosa è la leadership generativa. 

La maternità è (anche) un processo di apprendimento e di esplorazione del potere personale. Le curatrici del progetto Mother Nature hanno dato un nome alla nuova cultura della leadership connessa alla maternità: leadership rigenerativa. Una definizione che mette l’accento sulla possibilità di avere un impatto vitale sul mondo e che si fonda su 6 premesse. 

  • Se abbiamo influenza su anche una sola persona, siamo leader
  • Le qualità che maturiamo con la maternità sono essenziali per l’evoluzione dell’umanità. 
  • Il mondo ha bisogno di diversi stili di leadership e di diversi e diverse leader per affrontare le sfide attuali. 
  • Possiamo appropriarci della nostra leadership raccontando le storie. 
  • La cultura della leadership che vogliamo costruire si basa sul praticare il potere con non il potere su. 
  • Una domanda: come posso usare il mio potere e mettere gli altri e le altre nella condizione di usare il loro? 

 Le competenze della maternità. 

Sara: Ciao, sono Sara e oggi parliamo di leadership e di maternità con due ospiti molto speciali per me: Erika Tabloni e Melania Bigi. Erika due anni fa ha lasciato l’azienda in cui lavorava per iniziare a occuparsi dello sviluppo delle persone, da due anni lavora per People Rise come facilitatrice, coach, formatrice e ciò che ama fare è scoprire il diamante che è nascosto dentro alla pietra grezza delle persone. Erika è mamma di due adolescenti e vive in provincia di Parma. L’altra ospite speciale è Melania Bigi. Melania è laureata in architettura ed è facilitatrice di vocazione, nel 2019 ha fondato Tara Facilitazione per supportare il processo evolutivo delle imprese. Melania è mamma da 17 mesi e vive nelle colline fiorentine. Sono contenta di avervi qui anche perché siete in due momenti della maternità diversi. Siete mamme una da 17 anni e l’altra da 17 mesi, state vivendo due fasi, entrambe impegnative, della maternità. Vorrei cominciare con questa domanda, qual è per voi il rapporto tra maternità e leadership? Come diventare mamme, come vivere le sfide della maternità può essere legato alla vostra capacità e potenzialità di leader? Erika.

Erika: Vorrei cominciare da una frase : se abbiamo influenza su una persona siamo leader. Per me siamo leader nel momento in cui conosciamo noi stessi. Per cui la prima influenza è su di noi. Diventare mamma è un’ottima occasione per entrare veramente in contatto con noi stessi: il fatto di avere questa responsabilità enorme, la responsabilità di un’altra creatura, fa sì che tu ti rimetta in discussione, nel bene e nel male. Per me questa capacità di rilettura di se stessi rientra nella leadership. Che cosa significa leader? Ci sono tante opinioni diverse e a me piace moltissimo uno spunto dal mondo anglosassone,  viene dalla radice del termine che significa morire. Siccome tu accogli qualcosa di così grande, una parte di te per fare spazio deve essere lasciata andare. Quando nasce un bambino nasce una mamma ma non muore una figlia. Aggiungiamo qualcosa nella nostra vita e questo ci aiuta anche nel definire come lasciar andare, E secondo me il leader, il grande leader fa questo. Il grande leader accompagna per un pezzo e poi ti lascia andare.

Sara: Non è sempre facile.

Erika: Eh no, però è insito nell’essere mamma. È un equilibrio. Dove devo intervenire e dove invece devo costruire le basi perché tu sia abbastanza forte per volare da solo? Se con questo fai veramente i conti, apre un momento di riflessione personale interessantissimo che non riguarda solo te, può essere proprio messo a disposizione.

Sara: Melania, tu che ne pensi? 

Melania: Domanda dalle mille risposte. Una delle skill che mi rendo conto che sto sviluppando in questi mesi è proprio la capacità di andare all’essenza. Ho pochissima energia, ho pochissimo tempo. Non posso perderli in cose che non sono veramente importanti. Sono più assertiva: in qualche modo sta aumentando la capacità di mettere dei limiti chiari con amore. Ed è quello che mi rendo conto che faccio con il mio piccolo e come leader. Mi chiedo: quando posso accogliere e quando no? Quando posso dare spazio ad una nuova idea, ad una nuova relazione, a una partnership, quando invece mi rendo conto che è uno spreco? E questa per me, in questo momento storico, in particolare è qualcosa che tutte e tutti i leader dovrebbero sviluppare, cioè la capacità di abbassare gli sprechi di energia, di tempo, perché è una questione ecologica. Un altro elemento è la capacità di improvvisare. La creatività,  il problem solving e  la velocità di rispondere a delle questioni anche urgenti. Un’altro elemento è l’essere al servizio della vita. Penso che una buona leader sceglie dove mettere le proprie energie, però deve essere al servizio di qualche cosa di più grande che non è il proprio ego, non è il mero guadagno economico, ma è al servizio di un progetto che serve per l’evoluzione, a supporto della vita. Quale che sia l’azienda, se fa pane o mobili o servizi, è fondamentale il proposito. Come madri abbiamo scelto di essere a servizio di qualche cosa su cui non abbiamo il controllo: il figlio non è nostro e così non lo sono i progetti di cui siamo leader. 

 Lasciare andare: una competenza da madre e da leader. 

Sara: Ascoltandovi mi è venuta in mente questa esperienza all’inizio del mio viaggio nella maternità, quando sono diventata mamma. Nelle prime settimane mi sono accorta che è successo qualcosa nel mio modo di vedere il mio mondo. Come se il centro del mio mondo che fino a quel momento ero io, e lo dico con molta sincerità, tutto a un tratto è diventato una bambina. Togliermi dal centro di questo mio mondo è stato anche molto terapeutico, nel senso che mi ha permesso di lasciare andare tante preoccupazioni, tanti pensieri, tanto superfluo. Nella mia esperienza di maternità ci ho messo tanto a capire questa abilità dell’usare con parsimonia le nostre energie. Non  so se avete mai incrociato nella vostra strada il mito della mamma supereroe che sa fare tutto, che ha tutto sotto controllo, che non perde un colpo, che pulisce il bagno, pulisce la cucina, intanto prepara  da mangiare qualcosa di fantastico. Ecco, io sono stata un po’ obnubilata da questa narrazione e mi ha esaurito. Quanto poco è a servizio delle donne questo racconto? Pur sembrando celebrare degli aspetti positivi della maternità, invece, penso proprio che sia qualcosa che rema contro. Piuttosto che riuscire a fare tutto, ad arrivare dappertutto, dobbiamo proprio imparare a risparmiare energie e decidere dove mettere quelle che abbiamo a disposizione per farle fruttare veramente. Penso sia un’importante capacità da leader . Avete voglia di raccontarmi una storia? Vi viene in mente qualche storia che parla proprio di questo?

Erika: Mi viene in mente che la maternità è un bel modo per riscoprire la nostra femminilità. Il femminile, che è sia nell’uomo che nella donna, riguarda la capacità di accoglienza, il mettersi al servizio, quella parte che spesso viene un po’ castrata dal fatto che devo essere performante e la performance è molto maschile. Però, guarda caso, poi il ricercare la performance a tutti i costi non è detto che porti al risultato perché manca la parte femminile dell’equilibrio. Con la mamma ritorna la femmina nel senso dell’atto più femminile che nelle aziende in questo momento si sta riscoprendo. Non possiamo semplicemente pensare al mondo attraverso le analisi dei dati, non possiamo solo utilizzare quella parte del cervello che ci porta a capire il come e il cosa fare, ma abbiamo bisogno anche di quella parte che ci ricollega alla spiritualità. Certo, è molto antica, ma ci ha fatto arrivare fino a qua. E a volte ce la dimentichiamo un po’ e quando la dimentichiamo perdiamo tempo in cose inutili, perché non seguiamo più i nostri valori, quello che effettivamente ci ispira. È un po’ come se venissimo fagocitati dal mondo intorno a noi, poi arriva una creatura che rimette in discussione tutto e questa è una cosa meravigliosa. Forse questo è uno dei doni che ci dà la maternità, non sono soltanto le persone in più che che in qualche modo rimodulano la famiglia ma la persona nuova che diventi.

 Maternità, leadership e il potere della vulnerabilità. 

Melania: Mi allaccio. Non so se sono diventata una nuova persona, ma sicuramente sto tirando fuori delle parti di me legate al potere e che facevo fatica a esprimere. Qualche anno fa, in un calendario filosofico di quelli in cui ogni giorno c’è una frase un po’ a effetto, ce ne era una che diceva: che cosa faresti se tu non avessi paura? L’ho staccata e me la sono messa lì davanti. Diventare madre mi terrorizzava, mi terrorizzava la paura di perdere la mia libertà: come faccio a lavorare con i gruppi con un bambino piccolo? Viaggiavo tantissimo, non riuscivo a conciliare l’immagine che avevo di me lavoratrice, leader e l’immagine di me madre. Ci ho messo tanto a conciliare queste due figure, la Melania madre e la Melania facilitatrice. Poi ho letto un’altra poesia di Marianne Williamson, leggo due passaggi.

“La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. È la nostra luce, non la nostra ombra a spaventarci di più. Ci domandiamo, chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso, in realtà chi sei tu per non esserlo?”

“ Quando permettiamo alla nostra luce di risplendere inconsapevolmente, diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso e quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri.”

Perché dico questo? Perché da quando sono diventata mamma tante donne mi hanno scritto dicendomi: wow, è  figo che vai e faciliti con il bambino in fascia. Oppure: ma tu viaggi e allatti all’aperto? Mi sono resa conto che l’aver superato un mio limite, una mia paura e l’aver mostrato anche la difficoltà, la stanchezza, ha permesso ad altre di essere un po più loro stesse.  Non di essere come me, ma di dire: se ce l’ha fatta lei, ce la faccio anch’io. Ecco, per me questa è un’altra cosa della leadership. Più io riesco ad essere me stessa, veramente me stessa, e più permetterò alle altre, agli altri di esserlo. Non in una maniera paternalista ma congruente

Sara: Questa qualità di mettere in campo la vulnerabilità non è classicamente abbinata alla leadership. Normalmente l’idea che abbiamo di leadership è qualcosa di un po’ più monolitico. Di un po’ più inscalfibile. E a volte anche come genitori abbiamo quest’idea, dimostrarci monolitiche ai nostri figli e alle nostre figlie 

Melania: La perfezione. Tu prima parlavi dell’essere perfette, dell’essere, delle super mamme, super donne, super leader multitasking, ma abbiamo bisogno di leader più umane e più umani. 

 Riconoscere la leadership femminile. 

Sara: Si e penso che questo sia un grande insegnamento anche da praticare proprio nella relazione con i nostri figli e le nostre figlie. Non avere paura di mostrarci anche nelle nostre vulnerabilità o nei nostri lati meno brillanti, perché in questo modo mettiamo anche loro nella condizione di poter mostrare i propri senza vergogna e senza paura. Per riallacciarmi al tema del mostrare vulnerabilità, che non è una classica qualità che attribuiamo alla leadership, vorrei farvi questa domanda. Navigando questi argomenti con tante donne da vari paesi europei durante i nostri corsi è venuta spesso fuori una forma di resistenza al termine. Non sono una leader, non mi sento una leader, non mi piace questa parola, non la voglio praticare, non voglio prendere in considerazione il tema perché leadership è qualcosa che appartiene ad una parte di mondo che non mi interessa frequentare. E probabilmente è quella parte di mondo a cui facevo riferimento prima, quello che ci portiamo dietro come retaggio, dove l’idea di leadership è legata a qualità di performance, di perfezione,  di potere su piuttosto che di potere con. Avete qualche riflessione da condividere su come possiamo riappropriarci di questa qualità che invece è fondamentale?

Erika: Per me la prima leadership è la leadership individuale. Lo stare bene con se stessi e conoscersi e riconoscersi nelle parti in luce nelle parti in ombra, perché se si conoscono le parti in ombra sono una ricchezza. Se non le conosciamo in qualche modo ci governano. La centratura della persona è fondamentale. Un po’ mi dispiace perché a volte noi rigettiamo questo potere che abbiamo e nel momento in cui lo rigettiamo generiamo turbolenze e a volte sofferenze. Se io dimostro la mia vulnerabilità innanzitutto non perdo tempo ed energie per nasconderla e poi faccio stare bene le persone intorno a me, impatto sul mio campo di influenza, il campo del cuore, che è molto, molto importante e molto potente anche se non ce ne rendiamo conto. Se io sto bene, influenzo positivamente le persone intorno a me. Una volta mia figlia mi ha detto: mamma, ma come fai, tu sei così forte! Le ho risposto: abbiamo sbagliato qualcosa nella comunicazione, forse non non ti ho fatto vedere tutto. Dobbiamo mostrarlo altrimenti l’asticella è veramente troppo alta. 

Melania: Quoto totalmente Erika e aggiungo citando male Shakespeare che una rosa, anche se gli cambi nome, avrà lo stesso profumo. Lo stesso vale per il potere o la leadership, puoi cambiare nome, ma il concetto rimane. Io credo che ci sia un tema fortemente culturale. La parola potere in inglese fa tutto un’altro effetto, power, non è negativo come in italiano. Potere. Ora noi associamo sia al potere che alla leadership degli elementi del patriarcato, perché tutte e tutti noi abbiamo vissuto degli abusi di potere. Quindi, prima di tutto abbiamo bisogno di un lavoro su di noi per vedere queste ferite per riappropriarci del nostro potere, del nostro potenziale, perché questo è, il poter scegliere, il poter fare, il poter avere un impatto in questo mondo, cambiare le cose. Possiamo accettare prima di tutto la nostra forza. Perché è legata alla vita come donne e come madri. 

Sara: Grazie Melania, grazie Erika. Io chiuderei qui perché avremmo ancora tantissimo da dire credo, ma mi sembra che abbiamo messo in campo delle perle e le vorrei lasciare decantare. Però mi piacerebbe riprendere questa conversazione in un nuovo podcast, parlando per esempio di come possiamo intraprendere questa strada, di riconnetterci al nostro potere personale, al nostro spazio interiore. E immaginare come sarebbe se non avessimo paura.

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OltreTara: contenuti per le organizzazioni pioniere!
OltreTara: tre contenuti interessanti per le organizzazioni in trasformazione

Ascoltate il podcast se volete diventare agenti di cambiamento giocoso!

Ascoltatelo anche se il gioco vi affascina, stuzzica e coinvolge o al contrario se lo considerate qualcosa di relegato all’infanzia e al passato.

Nel dialogo a due voci con Melania, infatti, Lucia Berdini, PlayFactory, ideatrice del Manifesto del Gioco, racconta come e perché è nata l’iniziativa e ci accompagna in un viaggio nell’impatto potente del gioco. A partire da una considerazione: il gioco è un bisogno, come mangiare, e quando permea gli ambienti play-fobici (ossia, terrorizzati dal gioco) li trasforma creando un tempo di qualità che si riflette in tutto il sistema.

Noi abbiamo firmato il Manifesto del Gioco e vi invitiamo a farlo. Sarà una bella scoperta!

Qui per leggere il Manifesto e aderire

https://manifestodelgioco.it/

Qui per conoscere meglio Lucia

https://www.linkedin.com/in/luciaberdini/

Qui per conoscere meglio PlayFactory

https://www.linkedin.com/company/playfactory/

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Contenuti preziosi per un buon conflitto
Il conflitto, un alleato nelle organizzazioni: come trasformare la tensione nei team in una opportunità.

C’è una domanda che torna: il lavoro, in Italia, come sta?

Ibrido, male o poco pagato, stagionale. Dati e rapporti affrontano il tema da più prospettive e il ritratto che viene fuori non è dei più rosei. A farne le spese sono i lavoratori e le lavoratrici: raccontati poco o male, sembrano stereotipi più che persone in carne e ossa.

Dedichiamo loro (e quindi dedichiamo anche a noi!) OltreTARA di questa settimana rilanciando tre contenuti che ci sembrano interessanti per capire come stanno le persone al lavoro e come possiamo aiutarle. Senza parlare per forza di soldi (ma parlando anche di quelli).

Stressata, triste e ansiosa: così si sente la forza lavoro globale.

“I dati del nuovo rapporto State of the Global Workplace di Gallup suggeriscono che il lato emotivo del lavoro non è guarito dalle ferite della pandemia.

Sotto la superficie, le persone in tutto il mondo sono stressate e ansiose: il 44% dei dipendenti dichiara di aver provato molto stress durante il giorno precedente.

Le emozioni negative hanno raggiunto un nuovo picco. Nel 2021 la preoccupazione, la rabbia e la tristezza sono rimaste al di sopra dei livelli pre-.pandemia, mentre lo stress ha continuato a salire fino a un nuovo picco”.

Lo scrive Ryan Pendell sulla Harvard Business Review offrendo consigli e suggerimenti a chi ha la leadership e può lavorare per cambiare il clima in ufficio.

Ripensare il lavoro, a partire dagli stagionali.

Dall’inizio di maggio, come era successo già più volte negli ultimi anni, le lamentele di ristoratori e gestori di alberghi hanno suscitato l’interesse dei media. Molti titoli sono stati dedicati alla mancanza di lavoratori e lavoratrici stagionali.

La tesi, sostenuta tra gli altri dal Ministro del Turismo Garavaglia, è che sia più conveniente ricevere dallo Stato senza fare niente piuttosto che impegnarsi in lavori stagionali.

Ma la mancanza di cuochi e cuoche, commesse, camerieri, lavapiatti non riguarda solo l’Italia e non si risolve pensando esclusivamente agli stipendi.

Il problema, più profondo e radicato, riguarda le esigenze dei lavoratori e in definitiva il ruolo del lavoro nella vita delle persone.

Bisogna ripensare il lavoro, tutto (e molto altro) qui.

Lo spiega su Il Post Isaia Invernizzi.

Non solo un tema di soldi, ma anche un tema di soldi.

Lo abbiamo capito: sul lavoro le persone non si sentono al massimo e non si tratta solo di soldi. Ci sono di mezzo il proposito, il significato del lavoro, il benessere. E, di nuovo, anche lui. Il denaro. Soprattutto se pensiamo che in Italia gli stipendi sono fermi da 30 anni. 

Affrontare il tema denaro non è mai banale. Significa tirare fuori una pluralità di altri temi, dalle politiche pubbliche fino al livello personale con domande su chi siamo, cosa vogliamo, chi saremo domani.

Se non lo conoscete già c’è un podcast che di soldi parla benissimo, a partire dal titolo: Grano. Lo abbiamo già consigliato, lo rifacciamo con un nuovo episodio: piccoli risparmi crescono. Perché se è vero che siamo lavoratori e lavoratrici in crisi almeno cominciamo a mettere in ordine qualcosa: i micro investimenti che possiamo già valorizzare.

Questo post fa parte della nostra  serie OltreTARA, la raccolta di contenuti interessanti dalla Rete, che pubblichiamo ogni fine settimana.

L’obiettivo è costruire una biblioteca di temi per le organizzazioni in cambiamento.

Se avete libri, articoli, video, canzoni e giochi da suggerire e condividere scriveteci qui: [email protected].

Li pubblicheremo insieme alle altre storie interessanti.

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La facilitazione per riprogettare le riunioni. Perché serve e come funziona.
Ogni settimana una notizia sull’Agenda 2030

Per noi il cambiamento parte dalle parole con cui lo raccontiamo.

Lo abbiamo già detto e scritto ma vogliamo ripeterlo perché siamo consapevolə della grande dispersione di contenuto nel mare grande delle informazioni digitali.

Nel nostro piccolo desideriamo sostenere le campagne che sentiamo vicine con la consapevolezza che per produrre un grande impatto sul mondo servano tante voci, diverse, insieme.

La nostra comunicazione non vuole solo raccontare chi siamo e cosa facciamo, ma anche quale proposito ci muove e come ci relazioniamo con il resto del mondo.

Vogliamo diventare una piattaforma per il cambiamento e anche la nostra comunicazione è orientata a raccontare la trasformazione: nelle organizzazioni, attraverso la facilitazione, ma anche nel pianeta, tramite l’attivismo.

La prima campagna che abbiamo voluto sostenere ci riguarda da vicino. Tuttə. Ed è quella dedicata a promuovere e diffondere l’italiano inclusivo.

L’italiano inclusivo è la lingua che supera il maschile sovraesteso con cui descriviamo pluralità con il genere maschile anche se c’è un solo maschio, se ci sono donne e persone di genere non binario.

Crediamo che adottare l’italiano inclusivo sia un segno di consapevolezza e un modo per portare l’attenzione su un tema che ci sta a cuore.

Non sempre è facile, spesso sbagliamo, l’impegno chiede fatica. Ogni percorso, però, la richiede, questo non significa dover rinunciare a camminare.

Oggi torniamo sul tema per proporre una rassegna di contenuti interessanti, stimolanti e capaci di fare chiarezza sull’italiano inclusivo e sul tema più grande su cui punta il riflettore: il ruolo delle donne nella società.

Grazie a chi ha prodotto audio, testi, video tematici.

Navigare una rassegna di contenuti tematici (sotto) è un po’ come seguire le briciole di Pollicino: una ad una ci portano in un posto bello.

E noi desideriamo andare insieme verso un mondo migliore a partire da qui.

PS: la rassegna non vuole essere esaustiva ma solo aprire una finestra. I contenuti selezionati sono quelli che leggiamo, ascoltiamo, riceviamo noi quindi molto legati a un gusto personale.

PODCAST

Mis(S)Conosciute

Ci risiamo! Spesso parliamo di scrittori, di intellettuali, di uomini che hanno fatto la storia con il proprio pensiero. Stavolta invece raccontiamo solo le donne, per scelta. Mis(S)Conosciute è il podcast dedicato a scrittrici tra parentesi: poco conosciute, donne, che hanno qualcosa da dire.

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Non è un lavoro per donne

Non esistono lavori per uomini o per donne: esiste il talento. Il podcast lo racconta, superando le barriere nelle professioni.

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Lettera Femmina

Il podcast è la raccolta epistolare di tutte quelle lettere che non abbiamo mai ricevuto né abbiamo avuto il coraggio di scrivere e che toccano temi caldi e complessi. Qualche esempio? Caro violento, caro privilegio, caro maschio.

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TESTI

La prima statua di una donna a Milano//Wired.

A Milano su 121 statue solo 1 è dedicata ad una donna ed è stata inaugurata il 15 settembre 2021. La statua è dedicata a Cristina Trivulzio Belgiojoso: patriota è stata una donna estremamente all’avanguardia per i tempi in cui ha vissuto. Ricordarla non è guardare al passato ma evocare un modo di fare: avanti.

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Cyber-femminismi: come costruire e sostenere spazi femministi digitali?

Internet ha un ruolo nella trasformazione politica dell’esistente e va rivendicato. Il movimento femmista digitale è cronicamente sottofinanziato ed ha bisogno di noi. Lo scrivono le attiviste di Chayn Italia (ok, a noi piacciono molto non solo perché abbiamo collaborato, guardate anche la pagina Facebook e le loro campagne)

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Toponomastica Femminile

Ogni 100 vie e piazze dedicate a uomini solo 7 sono intitolate a protagoniste femminili e il 50% è rappresentato da sante e martiri. Eppure la toponomastica è importante: non solo indica chi è l’eroə ma anche quale sensibilità è predominante. Partendo dal dato è nata l’associazione Toponomastica Femminile qui raccontata da Repubblica.

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Il difficile dibattito in Italia per un linguaggio inclusivo

Quindi, è tutto facile? No, il tema dell’italiano inclusivo, seppur punta a costruire ponti e ad unire, è stato oggetto di un dibattito fortemente diviso. Fa il punto e lo ripercorre Valigia Blu in uno dei suoi pezzi chiave, che ci dicono come stanno le cose. (ps: l’articolo è di circa un anno fa ma funziona ancora molto bene)

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VIDEO

Il potere delle parole giuste, Vera Gheno TEDxMontebelluna

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Talento, leadership, trasformazione sociale: i temi della settimana di OltreTara
Impariamo a recidere

“Chi lascia la vecchia per la nuova, sa quello che lascia ma non sa quello che trova”

Questo monito non soltanto suona bene, ma racconta anche la base di una difficoltà che conosciamo piuttosto bene. La difficoltà di lasciar andare. Ci risulta difficile lasciar andare perché il passato è noto, conosciuto, certo. In totale contrasto col futuro – ambiguo, oscuro, indefinito. Ma come facciamo a cambiare strada allora? Come facciamo ad innovare? Come facciamo ad evolvere?

Priel Korenfeld

Aziende che lavorano sempre allo stesso modo, anche quando i tempi cambiano. Realtà che riproducono da remoto tutto il marcio del loro modo di fare anziché rivederlo. Accelerazioni di piani fallimentari perché si fatica ad aprirsi al confronto. Si potrebbe anche racchiudere tutto nell’ ormai quasi banale “abbiamo sempre fatto così”.

Ma se nel mondo umano conosciamo tutti questa difficoltà, questa resistenza al cambiamento, la Natura non ha questo problema, e forse ci può insegnare qualcosa. Le stagioni si alternano tra loro, ciclicamente. La vita nasce, fiorisce, porta frutti, e poi decade, ciclicamente. La ciclicità sembra essere il disegno stesso della Vita. Perché ci è difficile portarla dentro la nostra vita lavorativa, dentro alle nostre comunità e le nostre imprese?

Serve anche la tenacia, senza dubbio. Alcune cose ce le teniamo a lungo, o addirittura per sempre, significhi quel che significhi. Ma certamente una buona parte delle cose le dobbiamo lasciar andare, prima o poi.

C’è un momento quotidiano, però, che potrebbe ricordarci che in realtà sappiamo benissimo lasciar andare. Quando andiamo in bagno. Il corpo ci insegna come lasciar andare ogni giorno. E che bel sollievo che sentiamo, quando riusciamo a farlo, specie se abbiamo dovuto trattenerci prima.

In quel contesto, è naturale lasciar andare. Tutto quello che mangiamo e beviamo entra nel nostro corpo. Ciò che alimenta, che rafforza, che costruisce il nostro corpo – resta. Ciò che è superfluo, o addirittura risulta tossico al nostro corpo – fa la sua strada, e dovrebbe uscire altrimenti diventa nocivo. Poi abbiamo nuovamente fame, abbiamo sete, abbiamo il vuoto, certo. E quindi il ciclo ricomincia.

E se dovessimo imparare dal nostro corpo, dalla natura, come lasciar andare? Forse potremmo smettere di aggrapparci. Forse come persone, come comunità e come imprese, potremmo andare oltre. Forse potremmo non basarci soltanto su ciò che siamo stati e siamo, ma anche ascoltare ciò che siamo chiamati a diventare.

Priel Korenfeld
Organizational Hacker

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